Poche ore di viaggio e arriviamo al mare. Passiamo attraverso Izmir, l'antica Smirne di cui i Turchi, mi rendo conto ora che conosco un po' di greco, non hanno cambiato il nome ma semplicemente inglobato l'onnipresente articolo, apprezzandone appieno il traffico. Ma dopo Istanbul niente ci fa più paura.
Ancora un'ora e arriva anche l'estate. Kuşadasi: barche a vela, donne in canottiera, coppie a braccetto. Caldo. Saliamo fino all'albergo nel cuore del centro storico, imboccando salite spropositate e stradine controsenso. Prendiamo possesso della camera, ci spogliamo definitivamente della lana invernale e usciamo di nuovo in strada in abiti di cotone. Siamo diretti a Efeso.
All'entrata del sito paghiamo un gelato quanto un pranzo, schiviamo i tassisti che vorrebbero portarci all'accesso posteriore, quello su in cima, con il pretesto di permetterci così di camminare una sola volta attraverso tutto la città, in discesa, ed entriamo.
All'interno ettari ed ettari di rovine stracolme di folla. Strade pavimentate calcando le quali torme di Cinesi simulano il mondo dopo la loro prossima invasione: telefonini, caciara e foto di gruppo proprio lì dove c'è scritto "vietato entrare". Ma non è questo che mi è rimasto impresso. Le mille lingue parlate nel foro, anzi, non sono che la versione moderna del chiasso e del traffico che lo animavano duemila anni fa, quando questa enorme distesa di marmi preziosi - prima che il porto si insabbiasse, tagliandola fuori anche dalla decadenza dell'impero - era la capitale dell'Asia.
Riusciamo a camminare un poco distanti dalle scolaresche, dai gruppi organizzati di pensionati orientali, dagli analoghi gruppi locali, zigzagando per le viuzze poco o per nulla monumentali. In cerca di scorci, di visioni forse. Piccoli pezzi di mosaico ancora incastonati miracolosamente nell'intonato, fregi particolari. Mozziconi di colonne in Nero d'Aquitania, Cipollino, Pavonazzetto, Granito rosa, Verde antico e altri che non riconosco. Neanche un mese fa ho chiesto a un negozio online tedesco di spedirmi qui in Turchia una cucina a gas. Mi hanno risposto che non possono, i casini alla dogana sono troppi e troppo imprevedibili. Ecco: quello che mi rimane impresso è che 2000 anni fa, invece, qualcuno trovasse normale commerciare da qui con i Pirenei, e con l'Egitto.
Saliamo fino al famoso accesso posteriore e, se è vero che il sito è grande e farselo tutto a piedi faticoso, lo è anche che, sulla via del ritorno - avendo tutti seguito il consiglio dei tassisti - non troviamo nessuno. Efeso è tutta per noi. Scendiamo a passi lenti e riflessivi lungo la via principale, passiamo accanto alle fontane, ai porticati impreziositi dai mosaici, agli ostelli per marinai, ai bagni pubblici appena di fronte, fermandoci ancora ad ammirare la facciata della biblioteca. Passeggiamo ancora, costeggiando l'agorà, ci lasciamo il teatro sulla destra e imbocchiamo la strada del porto. Il colonnato, ai lati, si perde in lontananza, diretto verso il sole al tramonto. Restiamo qui, in silenzio, persi a immaginare i tempi che ora non sono più, poi con un sospiro voltiamo a destra e raggiungiamo l'uscita e la fedele C3.
A cena scegliamo, su consiglio di Silvio, il ristorante davanti al marina. È chiaramente un locale cui noi, in Italia, non potremmo neanche avvicinarci. Qui, con il cambio 6:1, possiamo permettercelo, ma i camerieri, dotati di istinto internazionale, sentono immediatamente che siamo degli intrusi. Non sono scortesi, anzi, sono gentilissimi. E riescono al contempo a mostrare tutta l'arroganza possibile. Dei veri professionisti, in questo. Mangiamo bene, paghiamo il giusto e appena possiamo veniamo via, decisi a frequentare più taverne famigliari e meno ristoranti fighetti. Il cibo è buono anche lì, e la gentilezza mostrata, quando c'è, almeno è sincera.
La nostra pensione, per esempio, è a conduzione famigliare. Quando, a notte fatta, torniamo lì stanchi dalle emozioni del pomeriggio, ci accorgiamo di non avere acqua da bere per la notte. La chiediamo al proprietario, dietro al banco della reception.
"Ok, ve la faccio portare i camera tra due minuti" ci risponde. E poi si infila la mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un po' di monete, chiama suo figlio e lo spedisce in piazza a comprarci una bottiglia.
Ancora un'ora e arriva anche l'estate. Kuşadasi: barche a vela, donne in canottiera, coppie a braccetto. Caldo. Saliamo fino all'albergo nel cuore del centro storico, imboccando salite spropositate e stradine controsenso. Prendiamo possesso della camera, ci spogliamo definitivamente della lana invernale e usciamo di nuovo in strada in abiti di cotone. Siamo diretti a Efeso.
All'entrata del sito paghiamo un gelato quanto un pranzo, schiviamo i tassisti che vorrebbero portarci all'accesso posteriore, quello su in cima, con il pretesto di permetterci così di camminare una sola volta attraverso tutto la città, in discesa, ed entriamo.
All'interno ettari ed ettari di rovine stracolme di folla. Strade pavimentate calcando le quali torme di Cinesi simulano il mondo dopo la loro prossima invasione: telefonini, caciara e foto di gruppo proprio lì dove c'è scritto "vietato entrare". Ma non è questo che mi è rimasto impresso. Le mille lingue parlate nel foro, anzi, non sono che la versione moderna del chiasso e del traffico che lo animavano duemila anni fa, quando questa enorme distesa di marmi preziosi - prima che il porto si insabbiasse, tagliandola fuori anche dalla decadenza dell'impero - era la capitale dell'Asia.
Riusciamo a camminare un poco distanti dalle scolaresche, dai gruppi organizzati di pensionati orientali, dagli analoghi gruppi locali, zigzagando per le viuzze poco o per nulla monumentali. In cerca di scorci, di visioni forse. Piccoli pezzi di mosaico ancora incastonati miracolosamente nell'intonato, fregi particolari. Mozziconi di colonne in Nero d'Aquitania, Cipollino, Pavonazzetto, Granito rosa, Verde antico e altri che non riconosco. Neanche un mese fa ho chiesto a un negozio online tedesco di spedirmi qui in Turchia una cucina a gas. Mi hanno risposto che non possono, i casini alla dogana sono troppi e troppo imprevedibili. Ecco: quello che mi rimane impresso è che 2000 anni fa, invece, qualcuno trovasse normale commerciare da qui con i Pirenei, e con l'Egitto.
Saliamo fino al famoso accesso posteriore e, se è vero che il sito è grande e farselo tutto a piedi faticoso, lo è anche che, sulla via del ritorno - avendo tutti seguito il consiglio dei tassisti - non troviamo nessuno. Efeso è tutta per noi. Scendiamo a passi lenti e riflessivi lungo la via principale, passiamo accanto alle fontane, ai porticati impreziositi dai mosaici, agli ostelli per marinai, ai bagni pubblici appena di fronte, fermandoci ancora ad ammirare la facciata della biblioteca. Passeggiamo ancora, costeggiando l'agorà, ci lasciamo il teatro sulla destra e imbocchiamo la strada del porto. Il colonnato, ai lati, si perde in lontananza, diretto verso il sole al tramonto. Restiamo qui, in silenzio, persi a immaginare i tempi che ora non sono più, poi con un sospiro voltiamo a destra e raggiungiamo l'uscita e la fedele C3.
A cena scegliamo, su consiglio di Silvio, il ristorante davanti al marina. È chiaramente un locale cui noi, in Italia, non potremmo neanche avvicinarci. Qui, con il cambio 6:1, possiamo permettercelo, ma i camerieri, dotati di istinto internazionale, sentono immediatamente che siamo degli intrusi. Non sono scortesi, anzi, sono gentilissimi. E riescono al contempo a mostrare tutta l'arroganza possibile. Dei veri professionisti, in questo. Mangiamo bene, paghiamo il giusto e appena possiamo veniamo via, decisi a frequentare più taverne famigliari e meno ristoranti fighetti. Il cibo è buono anche lì, e la gentilezza mostrata, quando c'è, almeno è sincera.
La nostra pensione, per esempio, è a conduzione famigliare. Quando, a notte fatta, torniamo lì stanchi dalle emozioni del pomeriggio, ci accorgiamo di non avere acqua da bere per la notte. La chiediamo al proprietario, dietro al banco della reception.
"Ok, ve la faccio portare i camera tra due minuti" ci risponde. E poi si infila la mano nella tasca dei pantaloni e ne tira fuori un po' di monete, chiama suo figlio e lo spedisce in piazza a comprarci una bottiglia.
MaLa, invece, l'ha vista così.
I diari di Adamo ed Eva
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