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Visualizzazione dei post da 2022

Lookout!

In due parole. Sono qui a Poros, a fine settembre. Il porto, la baia, sono pieni come fosse metà agosto di tre o quattro anni fa. Ho fatto amicizia con lo skipper alla mia sinistra, Cristiano, aiutandolo ad infilare il suo 56’ nello spazio normalmente destinato a un 40’. Ho fatto amicizia con la coppia norvegese che gli ha fatto spazio dall’altra parte. Alla mia destra Maurizio e Nadia sono pronti per salpare, devono alare oggi. Li saluto e scendo a versarmi il caffè dalla moka. Sento il rumore sommesso del loro motore, quello ancora più debole, mentre si allontanano, della catena che sale. Si interrompe: evidentemente sono arrivati in verticale sull’ancora, ora si assestano e la tirano su. E invece del ronzio del verricello sento le urla di Nadia. Esco di corsa a controllare. Un charterista, lanciato a palla da nord a sud, li sta per investire. Non me ne vogliano i charteristi, tra loro c’è gente simpatica e antipatica, ci sono stronzi e brave persone, arroganti e umili in ugual misur

Le regole di casa

Ieri pomeriggio, a Poros, ho osservato per mezz’ora buona (mezz’ora, davvero, senza esagerazione) le evoluzioni di un charter  israeliano di cinque persone, tre maschi e due femmine. Al timone un tipo pelato con gli occhiali tondi cercava di puntare la barca verso la banchina alla nostra sinistra e di metterla in linea prima di calare l’ancora. Ma la barca puntualmente si traversava prima che potesse dare il comando al prodiere. E lui ripartiva daccapo, tra lo sconforto suo e del suo equipaggio. Il prodiere, anzi, apertamente faceva gesti che nessuno, seppure da lontano, avrebbe potuto esimersi dal tradurre come “E che coglioni questo! Ce la farà a portarmi in banchina?”. Costui avrebbe probabilmente calato l’ancora a cazzo, anche sopra le nostre - la mia e quella di Maurizio e Nadia, che sono qui accanto a me in attesa di alare la barca - pur di arrivare alla sua senz’altro meritata birra. Ma il pelato era un tipo puntiglioso, e voleva che la sua manovra fosse quella corretta. Dopo un

La domenica del gommista

Premessa: nessuno si è fatto male, nessun danno registrato. Mi sono ritrovato a fare l’equilibrista tra le prue di due barche, tra cui la mia, a dare ordini in inglese misto a greco, a sbrogliare ancore e catene, e me la sono cavato in dieci minuti scarsi. Niente di nuovo, niente di eccezionale. A parte che non sono nel porto di Lipsì, e nemmeno a Poros e nemmeno a Egina. Non sono in porto: sono in baia. A Kolona siamo arrivati ieri sera, sul tardi, troppo tardi per i miei gusti. Nonostante questo, però, abbiamo avuto tempo e luce a sufficienza per scandagliare il tratto di baia libero, quello dietro a tutti, verso la chiesetta, e di scegliere una buona chiazza di sabbia per calare l’ancora. L’idea era, ed è, è rimanere fuori dal casino quando, stasera, il vento girerà di 180 gradi e tutti ruoteranno sulle proprie ancore. Qui dietro, vuoi per i fondali risicati - fortunatamente in tanti pensano che 3-4 metri lo siano - vuoi per l’effetto pecora - se non c’è nessuno vuol dire che il lup

Colpa di Roberto

Sono almeno cinque giorni che le previsioni, costanti e regolari, preannunciano per oggi l’arrivo di forte meltemi. Mentre io e altri venti deficienti siamo arrivati in porto per tempo, e siamo qui da ieri, tu arrivi oggi, anzi, oggi in serata, perché non potevi certo perdere uno dei tuoi preziosi giorni di noleggio fermo in banchina.  Già il porto non è il massimo, si balla anche da questa parte, ma oltretutto - ovviamente - i posti migliori sono ormai andati da tempo: anche così però tu scegli il peggiore, nel porto peggiore dell’isola peggiore, con questo vento che già si sapeva sarebbe arrivato.  Arrivi, scrivevo, e ti metti sopravento centrale al molo, cali l’ancora a cazzo e vieni in banchina ululando ordini misteriori e contraddittori. I tuoi clienti/amici/equipaggio o chiunque essi siano, li mandi tutti a terra a fare spesa, in modo che quando l’ancora speda, perché ti ricordo che l’hai messa a cazzo e nonostante il vento al mascone non te ne sei curato, non hai nessuno che ti

La fuga di Pino

“Il dinghy sta scappando,” sento la mia voce proferire, il tono eccessivamente tranquillizzato dal secondo bicchiere di ouzo Matis di Mitylini. Attorno a me MaLa, Thais e Giuseppe, anche loro in piena degustazione delle bottiglie riportate dal nostro recente viaggio a Lesbo. Pino, il tenderino, aveva sciolto il nodo con cui il sottoscritto lo aveva costretto alla Duna pochi minuti prima, e complici le raffiche di vento del tardo pomeriggio stava cercando di allontanarsi di soppiatto, in silenzio, timidamente, lento fino ad essere quasi immobile, senza attirare l’attenzione. Probabilmente l’avevo notato solo perché rilassato dal Matis. Ah, beh, sì. Se ne sta andando, se ne va, se n’è andato , la voce del Responsabile della Sicurezza che alberga nel mio cervello e si alterna ai turni di guardia con il Bevitore di Ouzo suggerisce. Il Bevitore di Ouzo si toglie gli occhiali e si avvicina al bordo della barca per tuffarsi. Hai controllato di non avere il telefono in tasca? ricorda il RdS. S

L’unico post dell’anno?

Un mio amico mi ha chiesto, proprio l’altro giorno, se avessi abbandonato questo blog. Gli ho risposto “certo che no”, per poi subito dopo ritrovarmi a fornire scuse per non avere, in effetti, pubblicato nulla negli ultimi mesi. Perché, mi sono reso conto, quasi l’intera estate è scivolata via senza che io abbia raccontato nulla di me, o di lei. Eppure di avventure ne abbiamo vissute. Dal cantiere di Limni a Orei, alle Sporadi, a Sithonia nella Calcidica, e poi Athos, e tutto il golfo fino ai luoghi che videro Aristotele fanciullo. E Thassos, e Samotraki. Limni, poi, e Lesbo e infine Psarà. Il tutto accompagnato da amici, a bordo e ancora di più fuori: incontrati nei porti e nelle rade, accompagnati in traversate, sentiti per telefono o seguiti su internet. Una comunità diffusa che esiste e resiste nonostante sia ormai palese che, come già scrivevo lo scorso anno, le praterie sconfinate si siano ridotte a poche isole, pochi moli. Nonostante tutto sia o stia per essere monetizzato, sfru

LaBora

Ho fatto una cazzata. Di quelle che poi raccontano gli altri, su di te, terminando poi con “Chi sa poi perché l’ha fatto, non era da lui”. Invece ho avuto fortuna, e sono qui a raccontarlo io in prima persona, senza giustificazioni finali a risollevare la mia figura. Sono ancora vivo, e avrò spero altre occasioni per farlo. Sempre che abbia un senso. Sono fuori casa per lavoro da tre settimane. Da due qui a Marina di Ravenna. Sono tre settimane che mi alzo all’alba, scendo al porto sperando di trovare il bar aperto per un caffè - ancora non ho capito che orari faccia, il bar - arrivo in barca, monto i computer, collego i cavi, accendo il motore e aspetto il mio collega spagnolo. Lui in realtà è Basco. A parte dal cappello, lo si può subito indovinare dall’aspetto alto e allampanato, duro e silenzioso, appena stemperato dal suo essersi ribellato in giovane età: scoperto il sole a Tenerife, durante gli anni dell’università, a prendere il freddo di Bilbao non c’è più tornato. Ma il giovan