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Visualizzazione dei post da 2021

La pace in Terra

Tre ancoraggi di seguito in porto non li avevo ancora mai fatti. Il primo, cime in banchina e passerella pure, quando sono andato a mettere in tiro la catena l’ancora è venuta su come fosse stata calata non nella sabbia ma nel burro fuso. Il porto è quello di Skinousa. Siamo arrivati qui dopo tre ore di viaggio da Paros, spinti a otto nodi al giardinetto col solo fiocco terzarolato dal meltemi ancora gagliardo, e incredibilmente c’è posto al molo principale. C’è però, pare, anche la fregatura: le leggende dicono che qui di fronte ci sia “una buca” piena di posidonia. O forse capiamo male il vicino danese, e il problema è che nella buca - lei una costante che rimane in tutte le versioni del mito - la sabbia è solo un sottile strato sopra una roccia liscia come un biliardino appena comprato. Quindi bisogna calare l’ancora “più in là”. Dove, più in là? “Vicino al pescatore, come ho fatto io”. Il pescatore è quasi in spiaggia, dall’altra parte del piccolo golfo. “Ma quanta catena hai dato

Vale tutto

C’è chi in un bosco antico cammina, attento a non calpestare i fiori, e chi lo sventra con la moto da cross. Chi nei musei osserva in silenzio le opere degli uomini, e chi schiamazza e scoreggia davanti a ogni quadro che non sia la Gioconda, ma solo perché gli hanno indicato quale sia, e gli hanno ricordato quanto ha pagato per vederla. Chi nel bianco setoso delle sculture rinascimentali vede la perfezione della mano dell’artista, chi una superficie perfetta per fare da base al proprio pennarello. Chi in un tempio abbandonato entra con rispetto e chi è pronto a depredare quello ancora venerato. Chi è attento a non sprecare una goccia di acqua, o un tozzo di pane, e chi apre tutti i cartoni di latte rimasti in cambusa la mattina dello sbarco perché "io l'ho pagato, è mio e ne faccio ciò che voglio". Chi vede nella quiete maestosa di una baia deserta, nei blu e nei viola del mare che contrastano con l’arancione della roccia, un miracolo della Natura, e chi un campo da gioco

Un agosto violento

La vista dalla terrazza della taverna Ilias è come sempre magnifica. L’intera baia si apre sotto di noi, il mare azzurro e le pareti scoscese nude e aspre. Il mare azzurro, nello specifico, è spazzato dal vento teso, e pieno di barche. Quando siamo arrivati, un’oretta fa, abbiamo visto di lontano l’affollamento e, prevedendo di non trovare una boa libera, abbiamo provato a metterci cime a terra nella prima rientranza del piccolo golfo. Ma il vento è tanto, oggi, e soprattutto rafficato. Di calare l’ancora su venti metri di fondo, dare pochi metri di catena e ritrovarmi infine sul lato sbagliato della valle, francamente, non me la sono sentita. Per cui siamo tornati al piano originale, e ci siamo avvicinati al campo boe arancioni. Miracolosamente, due erano libere! Kristos si è subito avvicinato col barchino per comunicarci che non potevamo rimanere: le due boe erano libere solo perché prenotate. Però, convinto da MaLa, ha subito cambiato idea e ci ha fatto rimanere per pranzo. Anzi, ci

B@ld

Oggi non ho urlato contro nessuno. È il mio compleanno e i delfini, che evidentemente lo sanno, mi hanno affiancato appena sopra Lipsì e mi hanno accompagnato fino a quando io stesso ho scelto di salutarli e cambiare rotta. Poi son venuto qui, uno stretto budello dove il vento si incanala permettendomi di calare venti metri di catena anche se gli scogli sono a quindici. C’era un catamarano, qui in fondo, i cui occupanti ci facevano cenno di metterci dietro a loro. Avvicinatomi ho scoperto che erano di Ostia. Ho scoperto anche che avevano ancorato quaranta metri più avanti, su cinque metri, e così gli ho detto “Ok, tranquilli, io vado avanti fino a che non tocco”, li ho passati e sono arrivato fino quasi a toccare. Ora, venuto indietro, vedo al mio fianco la loro ancora. Dopo una mezz’ora è arrivata la Rena, il daily tripper di Lipsì. Loro sono andati più avanti, hanno ancorato su due metri, forse anche meno, e sono tornati indietro fino quasi alla mia Delta. Siamo tre barche in fila in

Libertà e carte di credito

A Lipsì è ora di pranzo. La banchina tace, sonnolenta. Unico rumore il meltemi che fischia tra le sartie delle barche ormeggiate. Noi siamo accanto al Clara, un bel Lavezzi di una gentile coppia francese. Sottovento è arrivato, poco fa, Alessandro. Entrato in porto mi ha visto in banchina, ha messo la prua sopravento, ingranato la retro e, appena libero dalla mia catena, calato l’ancora. Trenta secondi dopo aveva già dato volta alle cime e ci stavamo stringendo la mano. Ora, scrivevo, tutto tace tranne il vento. Ho barche ben ancorate alla mia destra e alla mia sinistra, sessanta metri di calumo, sei cime di ormeggio. E chi m’ammazza? Ci sentiamo così sicuri che decidiamo, prima del caffè, di brindare ad oltranza con il prosecco avanzato da ieri. “Carlo!” mi sento chiamare, l’accento emiliano di Ale. Esco, e lui mi indica una barca che gira frenetica davanti alle nostre prue come un’orca intorno a una foca ferita. “Sono loro” mi informa. Loro chi? Poi li riconosco: i panzoni di Agathon

Il triangolo no

Il molo sopravento, quello che piuttosto vado in rada col frigo vuoto e ceno coi serpulidi raschiati via dall’elica, è giustamente quasi vuoto. Lui però si vuol mettere in mezzo agli unici due catamarani. Solo che, nonostante la indefessa, onnipresente, sovradimensionata elica di prua, cala l’ancora troppo sottovento (indizio: quando il vento al traverso è davvero forte il massimo che puoi fare con quell’aggeggio è tenere ferma la prua mentre la poppa scade. Del resto anche con il solo motore c’è sempre un limite oltre il quale il vento ti conviene fartelo amico, in manovra, e far andare la prua dove lui suggerisce. Mi azzarderei addirittura ad affermare che oltre i venti nodi, almeno per le normali barche da diporto, comincia a vedersi la differenza tra chi sa come si manovra e chi crede che il numero 51.5 dopo la scritta Hanse sia la versione del software) . Quindi quando arriva in banchina si spiaggia sullo spring del catamarano, e poi sulla sua fiancata. Da terra gli urlano di rida

Le onde bagnano, il vento asciuga. Le onde ribagnano.

Oggi pare ci sia un F6, fuori. “Pare”, scrivo, perché a Despotikò, dove abbiamo passato la notte, arriva vento, parecchio anche, ma le condizioni non sembrano poi così brutte. Domani il vento aumenterà. F7, dicono. Sempre rafficato, prevedono. E quindi ci sarà poco da risalire. Ma se oggi allungassimo anche solo di poco la scia, in prospettiva di avvicinarci alle Piccole Cicladi e una volta lì aspettare il momento giusto per saltare in Dodecaneso, non sarebbe poi male. Quindi, da Capitano, propongo una piccola tappa di dieci-quindici miglia, con l’idea di risalire fino a Paros e mettermi in condizioni di scendere al giardinetto verso Skinousa anche con il meltemi arrabbiato dei prossimi giorni. “E comunque” aggiungo “se una volta usciti quel che troviamo non ci piace possiamo sempre tornare qui e calare l’ancora esattamente dove è ora”. MaLa ha qualche dubbio, ma si dichiara d’accordo. Paolo e Cristina (ancora) si fidano del mio giudizio. Quindi è andata. Arrotoliamo alla meno peggio i

La logica dell'antifurto

Ieri su uno dei gruppi facebook frequestati dai cosiddetti “velisti” italiani uno di questi si vantava di usare sempre il grippiale, in rada, per impedire che i “velisti della domenica” calassero la loro ancora sulla sua. Cosa avrà contro quelli che escono in mare appena un giorno dopo di lui non saprei proprio... In questi casi, comunque evito di commentare.  Come evito di raccontare di quando anni fa a Itaca due equipaggi, entrambi italiani, vennero quasi alle mani nel momento in cui, acceso il motore e un attimo prima di ingranare la marcia, la barca sopravento si accorse miracolosamente di avere il grippiale di quella sottovento impigliato nel timone. Ricordo ancora le urla, condite a piene mani di rime in “one”, con cui uno spiegava all’altro: “In una baia affollata, tutta a tre metri di profondità, tutta sabbia: solo un *** mette il grippiale!” Come dargli torto. E proprio oggi, casualità, io stesso ho incontrato il ***. Kolona, Kythnos, Cicladi. inizi luglio, ma affollata: noto

Il pescatore-raccoglitore

Giuseppe è uno scienziato. Lui va dove deve andare, scende alla profondità esatta, aspetta e trova il pesce che deve trovare, gli spara solo se rispetta i requisiti di taglia e, soprattutto, lo centra. Fabio si affida invece al ragionamento induttivo: va in acqua col fucile che gli capita, anche storto e spompato, batte a tappeto ogni scoglio e spara a qualsiasi cosa si muova. In questo momento sono loro due gli esempi che mi vengono in mente per introdurre la mia esperienza con la pesca subacquea. Io però, che pure ho approfittato lautamente di entrambe le mense, non riesco ad assomigliare a nessuno dei due. Non ho il fiato, o il coraggio, per acquattarmi dietro uno scoglio a 15 metri di profondità ad aspettare il dentice dei miei sogni, e quindi mi limito ad annaspare in cinque metri d’acqua mentre i piombi alla mia cintura lottano invano contro il galleggiamento della mia muta nuova di pacca. E quando, perlustrando la costa, lo sparaglione rimane per una attimo davanti alla punta de

I pregiudizi, e i preoccupanti strascichi del covid

“Charterista” non è una categoria universale, ma solo la descrizione di una relazione in essere tra il conduttore e il mezzo nautico che galleggia sotto il suo culo. Il che non toglie che, dal punto di vista statistico, e a scopo puramente preventivo, a tale categoria sia associabile una casistica di comportamenti tale da esortare il vero saggio, ma anche il troppo superficiale, ad evitarla in blocco come la peste. Pregiudizio. A volte utile, a volte inutile, a volte dannoso. In ogni caso una settimana fa, a Egina, siamo arrivati in porto quasi a notte fatta. Come ho già avuto modo di scrivere ormai Egina è piena a tappo anche a giugno, invasa soprattutto dalla sopra citata, invisa, vituperata categoria di conduttori. E anche quella sera in porto non c’era un posto libero. Ma, accanto a un “misero” Bavaria 37, vedevamo due metri da una parte e uno e mezzo dall’altra. Duna è larga esattamente 3.44 metri. Ci siamo avvicinati e MaLa, da prua, ha richiamato l’attenzione di uno dei giovani

La civilizzazione

Ogni anno i charter sono più larghi. Qui a Egina, appena cinque stagioni fa, a giugno eravamo tutte barche armatoriali di dieci, dodici metri, appena uscite dai cantieri del nord dell’isola. Ora, agli inizi del mese, noi siamo gli unici sotto i tredici. E gli unici armatori. I charter, cinque anni fa, erano lunghi 40 piedi. 45’ i più lussuosi. Ora il polacco slavato si gode la primavera greca minimo su un 55, largo come una portaerei. Senza contare i catamarani, che tentano di entrare in porto alle sette del pomeriggio pensando di essere nella baia di Le Marin. Qui il porto si paga per lunghezza, e le barche commerciali hanno quasi il 70% di sconto. Quindi di fatto un catamarano a noleggio di 55’ paga meno di me. Ne entrano quattro e il porto sparisce. I greci questo lo sanno, e per tentare di arginare il danno economico hanno raddoppiato le tariffe. Il che, per i polacchi di cui sopra, che hanno pagato cinquemila euro in dodici per la settimana in “barca a vela”, è comunque una quisqu