Oggi riposo. Abbiamo trovato una pensione accogliente, con una camera modesta ma comoda e una fontanella gorgogliante vicino ai divani turchi del piano di sotto. Passiamo ore sdraiati nella penombra a sorseggiare tè e a scrivere, rimettendo a posto le idee, i ricordi. Confrontandoci.
Il proprietario parla un ottimo inglese, cosa rara da queste parti, e come secondo lavoro fa il tassista. Ci porta infatti col suo mezzo fin sotto la funivia che sale dalla base alla cima della collina scoscesa su cui sorge l'antica Pergamo.
"Fate il biglietto di sola andata, e una volta su chiedete ai ragazzi delle bancarelle di indicarvi la scorciatoia per scendere a piedi: non ve ne pentirete."
E infatti non ce ne siamo pentiti. Se il teatro è impressionante, ripido a picco sul dirupo, e il mausoleo di Traiano imponente, è solo quando ci allontaniamo dal centro e cominciamo a scendere la collina lungo la vecchia strada pavimentata che, soli, percepiamo appieno la magia dei secoli che permea questo luogo.
Le rovine hanno sempre qualcosa da comunicare. Ma, ci chiediamo, scendendo lungo le lastre di granito di questa strada, quello che comunicano dipende anche da ciò che siamo. O da ciò che crediamo di essere.
E quindi quello che ci chiediamo, mentre lenti e assorti ci avventuriamo tra le colonne confuse tra gli arbusti, è quale sia il rapporto tra i moderni turchi e le rovine della civiltà greca che infestano letteralmente il loro attuale paese, ricordando continuamente che la loro venuta qui è relativamente recente. Costantinopoli è caduta nel 1453, poco prima della scoperta dell'America, e così non posso impedirmi di associare i Turchi ai Conquistadores e l'Anatolia al Nuovo Mondo. Cosa prova un messicano di origine spagnola di fronte alla piramide di Kukulcan? La differenza in questo caso, che non fa però che complicare le cose, è che qui solo negli anni '20 del ventesimo secolo, a seguito del cosiddetto "scambio di popolazioni", i greci, pronipoti di coloro che fondarono ed abitarono Pergamo e le altre polis, sono spariti del tutto, allontanati forzatamente.
Cosa sarebbe successo se i Longobardi, arrivati in Italia, invece di integrarsi, fondersi e confondersi con la popolazione locale avessero mantenuto la propria religione, lingua e ordinamento sociale e, infine, avessero allontanato i precedenti abitanti delle terre conquistate, indidentalmente discendenti diretti - almeno dal punto di vista culturale - dei costruttori del Colosseo? Si sarebbero, in questa storia parallela, messi in posa vestiti da centurioni romani per la foto a pagamento accanto ai turisti giapponesi? Perché qui i turchi, a Troia per esempio, lo fanno. Si vestono da antichi greci e si fanno fotografare sotto al cavallo di legno.
L'antica via serpeggia verso il basso, sempre più lontana dal chiasso degli edifici famosi infestati da torme di cinesi evidentemente arrivati fin qui convinti si tratti di un parco giochi, e si perde tra le rovine minori. Le più belle. Siamo così soli nell'enorme tempio di Demetra che ci sembra di sentire il delicato ed evanescente profumo della Sua ultima presenza. O forse lei è ancora qui, e si aggira come noi tra le ombre delle colonne mozze e diroccate dove ancora vibra l'eco delle antiche feste in suo onore. E ancora più giù, fino a rimanere invischiati tra mura e capitelli e dover chiedere aiuto, per uscire, a colui che credevamo un custode. Il ragazzo, che non conosce una parola che non sia turca, a gesti ci fa cenno di seguirlo e scappa via balzando da un masso all'altro come una capra selvatica. Lo inseguiamo, più veloci che possiamo, e lo ritroviamo sorridente, in piedi accanto a una torre e a delle scale che scendono al suo interno: è la porta delle mura di Pergamo. E quelle sulle scale sono le pecore della nostra momentanea guida, che si rivela un pastore di armenti e non di turisti, curioso di sapere da dove veniamo e orgoglioso di mostrarci i suoi animali.
Passata la porta scendiamo ancora, stavolta costeggiando le mura dall'esterno, fino al cancello del sito archeologico, chiuso. Non c'è nessuno nella guardiola, e per non tornare indietro fino in cima non ci resta che strisciare pancia a terra al di sotto della recinzione. Due turchi bevono birra su un muretto, lì davanti, senza curarsi di noi né del nostro comportamento. Evidentemente non siamo i primi a utilizzare questa scorciatoia.
Al di fuori della città antica, tra questa e la città nuova, c'è quella "vecchia". Le case abitate dai greci fino alla loro cacciata, addossate a quelle che erano state le loro rovine. Viuzze strette e ripide, case modeste, ora per lo più cadenti, alcune abitate da famiglie poverissime. Tante le finestre sbarrate, o peggio aperte, i vetri rotti e la vegetazione a occupare stanze e cortili.
Mi chiedo, in questo giorno di dubbi, se poi, alla fine, gli abitanti di queste vie avessero coscienza di cosa vi fosse in cima alla collina. Di cosa fosse e di perché era lì. Magari no - mi è capitato in Eubea di chiedere indicazioni per l'acropoli proprio sotto la collina giusta e di sentirmi rispondere "Boh? C'è un'acropoli qui?" - e tutte le domande precedenti hanno senso soltanto nella nostra testa provata dal sole a picco.
Prima della Bergama attuale, composta da palazzi moderni e vie trafficate da automobili e ragazze vestite all'occidentale, c'è quella del mercato e degli artigiani, quella degli uomini seduti agli angoli della strada a sorseggiare çai e delle donne infagottate curve sulle sporte della spesa. Quella dove quando cammini per la strada sei costantemente osservato e commentato, e quando svolti un angolo ti giri sempre indietro con la sensazione di essere seguito. Solo una sensazione, sia chiaro, qui nessuno ci vuole del male.
"Mi piace qui" annuncia MaLa, quasi arrivati in albergo, due vie dietro il suk. "Mi ricorda Casal di Principe."
MaLa, invece, l'ha vista così.
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