Abbiamo dormito in parecchi posti strani, negli ultimi 15 giorni. Un po' per la curiosità del viaggio, che ci ha portato a un zigzagare assai poco efficiente per i paesi e le campagne dell'Europa orientale invece che a seguire la via più breve, diretta. Un po' per la necessità di risparmiare, per quanto possibile, su alberghi e ristoranti. Più sugli alberghi, a dire la verità.
Per questo siamo finiti dai cinesi, in Ungheria. Una casetta bianca, cubica, con mobili cinesi e arredi cinesi, per una volta al loro posto. E siamo finiti da Vasy, a Timisoara, un ex bar di un ex immigrata i cui figli e nipoti sono rimasti a Philadelfia ma lei no, preferisce la sua casa. Un letto e un divano al piano di sopra, colazione servita nella taverna, ancora arredata a cafè. Abbondante ma letale.
Poi è stata la volta di Stefan, a Sibiu. Un appartamento nuovo di pacca, comodissimo, in un condominio tanto nuovo che ancora non ha portone di ingresso e cassetta postale. Il palazzo, insieme a tanti altri, è in un quartiere nuovo, in mezzo ai campi degradati lontani perfino dalla periferia della città. Stefan è simpatico, ma logorroico, e ogni consiglio che ci ha dato si è rivelato sbagliato o eccessivo. Ce ne ha dati fin troppi.
Ed eccoci a Costanza, anzi a un paesino nelle vicinanze chiamato Eforie Nord. Una stanza scricchiolante dal pavimento imbarcato, un letto a occuparla tutta, e una splendida vista panoramica sul locale cimitero la cui estensione è testimone evidente di un passato in cui qui vivevano milioni di persone.
In Bulgaria siamo capitati a Nesebar, in una stanza talmente stretta che i due letti singoli erano stati messi necessariamente di lungo - e anche così rimaneva poco spazio per passare verso il bagno. Il bagno, del resto, non era più largo. Con la complicazione della doccia senza piatto messa in mezzo in maniera che, dopo averla usata, l'intero ambiente restava palude per tutta la giornata.
Dopo Nesebar è stata la volta di Rezovo. Estremo confine sud-est della UE, il paesino ha il fascino non tanto del decadente quanto del decaduto. L'albergo dove abbiamo dormito per 25€ è nuovo, e sono convinto che la polvere e le cimici morte erano lì perché fuori stagione e non per incuria. In compenso, sconsiglierei di permettere al cuoco di mettersi ai fornelli. A proposito di cuochi, a Rezovo abbiamo conosciuto due simpatici Ungheresi di Sofia, una coppia di mezza età, unici a parlare inglese capitati sulla nostra strada, che ci hanno aiutato a instaurare rapporti con l'albergatore. Sono a loro volta proprietari di un famoso ristorante nel centro di Sofia, e ci hanno raccontato con dovizia di particolari di come la loro piacevole attività si sia trasformata in un incubo da quando, per ottenere la liquidità necessaria a rinnovare i locali, hanno venduto metà delle loro quote a un socio italiano. Pare che dopo la conclusione dell'affare il carattere del tipo si sia fatto burbero. E soprattutto lui tendeva a non pagare. Ce ne dicono il nome, andiamo a cercare su internet, e scopriamo che è in carcere per mafia. Però, ci dicono, prima di andare in carcere ha fatto in tempo a vendere il suo 50% a un altro italiano. Cerchiamo anche questo nome: è in galera anche lui, sei anni per usura. La storia, credo, continuerà.
Infine siamo entrati in Turchia, e siamo finiti al Green Garden. Il Green Garden è una pensione da 70 lire a notte, poco più di dieci euro, il cui nome ha legato immediatametne con il lato romantico della mia Eva. I proprietari sono Mehmet e Enne, una coppia apparentemente perfetta, pensionati che hanno lavorato in Germania e parlano un perfetto tedesco. Il che per me è inutile, fortuna che MaLa invece riesce a scambiare i concetti fondamentali. Tra i quali c'è che Mehmet mi trova un tanto bel giovane. Io. E continua a darmi pacche sulle spalle e mi abbraccia e mi bacia sulle guance. Tanto gentile quanto umido, il vecchietto. Ci porta al terzo piano e ci piazza in una stanza di cui forse - spero - di pulito ci sono le lenzuola e null'altro. Dopo pochi minuti si ripresenta con un vassoio con pistacchi e due coppe di vino rosso. Sulle coppe c'è inciso lo stemma e il nome della pensione. Dentro, il vino è casareccio.
"L'ho fatto io" ci tiene a dirlo.
"Si sente" ho risposto, in italiano però. Abbiamo sorriso, ringraziato, e appena uscito abbiamo svuotato il liquido nel lavandino.
Durante la notte rumori equivoci. Accanto a noi, nella stanza occupata, pare, da una ragazza francese, qualcuno sembra avere un attacco di tubercolosi. Lei, però, ride, sguaiata. Poi delle voci in turco litigano. Sembra il proprietario, il tranquillo vecchietto che mi abbracciava e baciava, che urla e strepita e rompe cose. Di nuovo la ragazza che ride, e poi l'attacco di tosse del tubercolotico. Forse è Mehmet stesso, con una moglie al secondo piano e un'amante straniera al terzo?
Non ci è dato di scoprirlo, anche perché la mattina appena svegli, senza lavarci per paura di uscirne più sporchi di prima, partiamo per Istanbul.
Istanbul, avremmo potuto evitarla. Ma quattro anni dopo essere arrivato al ponte di Galata con Duna, ho voluto provare l'ebbrezza di arrivarvi anche con la mia C3. Quattro ore, ci è costato questo mio folle desiderio. Dopo aver percorso tutto il lungomare europeo, aver schivato due tassisti al cellulare e un ubriaco al volante, esserci persi per sbaglio in un suk del centro, per stradine larghe appena quanto la macchina e ingombre di bancarelle, venditori di tè, burqa con il cellulare in mano, facchini carichi come formiche, ciclisti, vespisti, pedoni, siamo davvero arrivati sul Galata. E come altri, dopo un iniziale imbarazzo, ho accettato di fermarmi a bordo strada con le quattro frecce, per permettere alla scalpitante MaLa di scendere e scattare qualche foto. Io no, sono rimasto in macchina fingendo senso di colpa per nascondere il mio reale senso di colpa, nonostante nessuno dei tanti rimasti bloccati nel traffico a causa mia mi abbia maledetto - quantomeno non a voce alta - e neanche sgozzato.
Dopo un altra ora di traffico un cartello, alla fine di un ponte, recitava:
WELCOME TO ASIA
Eccoci, ho pensato, stiamo davvero arrivando. E poi ancora giù, giù, per strade e stradine percorse per evitare le autostrade - che qui, scopriamo, funzionano quasi tutte con il solo telepass. E la cena notturna nella taverna per camionisti, in un posto qualsiasi a bordo strada, ordinando a gesti. E infine Bergama, a pochi chilometri dalle rovine di Pergamo. La pensione, il proprietario gentile che ci trova parcheggio, la stanza calda e il letto comodo, promessa di un sonno lungo e ristoratore. Stiamo davvero arrivando.
MaLa, invece, l'ha vista così.
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