A Lipsì è ora di pranzo. La banchina tace, sonnolenta. Unico rumore il meltemi che fischia tra le sartie delle barche ormeggiate. Noi siamo accanto al Clara, un bel Lavezzi di una gentile coppia francese. Sottovento è arrivato, poco fa, Alessandro. Entrato in porto mi ha visto in banchina, ha messo la prua sopravento, ingranato la retro e, appena libero dalla mia catena, calato l’ancora. Trenta secondi dopo aveva già dato volta alle cime e ci stavamo stringendo la mano. Ora, scrivevo, tutto tace tranne il vento. Ho barche ben ancorate alla mia destra e alla mia sinistra, sessanta metri di calumo, sei cime di ormeggio. E chi m’ammazza? Ci sentiamo così sicuri che decidiamo, prima del caffè, di brindare ad oltranza con il prosecco avanzato da ieri. “Carlo!” mi sento chiamare, l’accento emiliano di Ale. Esco, e lui mi indica una barca che gira frenetica davanti alle nostre prue come un’orca intorno a una foca ferita. “Sono loro” mi informa. Loro chi? Poi li riconosco: i panzoni di Agathon