Arriviamo a Trieste nel primo pomeriggio, dopo aver riempito di vino la macchina nelle campagne venete. Dobbiamo trovare da dormire e così puntiamo subito l'unico posto economico della città: l'ostello della gioventù.
"Ci cacceranno" protesto con MaLa mentre saliamo le scale della villa ottocentesca che lo ospita. "Si accorgeranno tutti che da un pezzo non sei più giovane."
La mia compagna, elegantemente, non si degna di rispondere, e entra dalla porta a vetri, lasciando si chiuda dietro di sè. Io, arrancando a causa del mio ginocchio destro, tritato decenni fa dall'hockey e ancora dolorante dopo le salite di Genova, la raggiungo.
All'interno una piccola anticamera, dritto davanti a noi un passaggio che va verso il salone comune, e sulla destra un corridoio con una reception. Dietro il bancone un giovane, occupato al computer con delle prenotazione da disdire.
Mi guardo intorno. Delle scale salgono, asettiche, davanti a noi. Alla nostra destra il corridoio prosegue e si perde in zone buie. Dietro di noi una piccola biblioteca, deserta.
Il giovane segretario finalmente alza la testa e ci vede.
"Vorremmo una stanza per stanotte" annuncia MaLa.
"Ho solo letti nelle camerate comuni. 20 euro a persona a cui vanno aggiunti un euro e mezzo di tassa di soggiorno e due euro di tessera degli ostelli" risponde, con un accento indefinito.
"Stiamo parlando di 48 euro per dormire nella camerata?" chiedo io.
"Esatto. Se volete asciugamani, lenzuola, sapone, lì c'è il listino prezzi." E indica un foglio in bella vista nella bacheca dietro di noi.
Mi avvicino, leggo, calcolo mentalmente il costo finale del nostro soggiorno. Trattasi di un furto bello e buono.
"Possiamo vedere le camere?" chiedo.
"Se fossero libere, certo, ma sono occupate e quindi non potete salire." Ancora quell'accento indefinito.
"E almeno il parcheggio? Su internet abbiamo letto che è privato."
"No, il parcheggio è fuori, lungo la strada"
"Ma noi abbiamo la macchina carica, vorremmo stare tranquilli..."
"Guardi, signora, che qui siamo a Trieste, mica a Napoli." E qui riconosco l'accento: è napoletano.
Trovo totalmente assurda la sua frase per almeno un paio di motivi. Il primo è che proprio un napoletano, per rassicurarmi sulla sicurezza di Trieste, scelga la propria città come paragone negativo. La seconda è che, se vogliamo scendere nei particolari, a Napoli ci abitano i napoletani, e semplificazione per semplificazione, razzismo per razzismo, sono loro che dovrei temere e non la loro città. Colto alla sprovvista, annaspando nella melassa impalpabile del grottesco che riempie ogni vuoto attorno al mio nervosismo, mi lascio sfuggire, acido: "Di Trieste posso anche fidarmi, ma da voi napoletani chi mi difende?"
Lui cambia colore, serra le labbra e bianco in viso, alza la mano e schiocca le dita.
Non capisco cosa stia succedendo fino a che sento un rumore proveniente dal corridoio. Un tipo è entrato e ha chiuso a chiave la porta dietro di sé. Ha un passamontagna calato sugli occhi. Faccio per arretrare verso la libreria ma anche da lì esce un uomo con il viso coperto da un bavaglio. Ha una pistola in mano, come, mi rendo conto, anche l'impiegato dell'hotel.
"Sono cazzi tuoi, guaio'," afferma - oserei dire a ragione - il quarto, scendendo le scale con una calzamaglia a fiori infilata in testa e penzolante sulle spalle come un pitone di piume. Lui non ha pistole ma solo un grosso coltello da macellaio.
Un urlo, improvviso. Esce dalla mia bocca... no, è MaLa. Mi giro e lei è ancora immobile, muta. L'urlo continua, i quattro napoletani si fermano, interdetti, fino a che la mia compagna mi indica la tasca. È il mio telefono: l'urlo è la suoneria personalizzata per le chiamate di mia madre.
"Scusate, è mia madre"
"Ah, beh, se è tua madre..."
Estraggo il telefono dalla tasca e mostro il display al tipo con il coltello da macellaio, che nel frattempo si è avvicinato. Per vedere meglio si toglie la calzamaglia a fiori.
"Tranquilli, è davvero la mamma. Rispondi pure, non farla aspettare"
"Solo cinque minuti. Pronto, mamma? Sì... no... beh ho un po' da fare in effetti. No, non sono ancora arrivato in Turchia. Come?"
I minuti passano mentre mia madre mi racconta in scala 1:1 la sua ultima settimana. Calzamaglia a fiori mi fa cenno con la mano libera di tagliare, io alzo le spalle e gli tendo il telefono. Anche a un metro di distanza la voce di mia madre arriva forte e chiara. Lui si ritrae.
"Mamma, possiamo sentirci più tardi? No, certo... Sì, certo" e la telefonata continua, infinita.
Il napoletano col bavaglio - che, mi rendo conto ora, è uno strofinaccio da cucina a motivi marinari - s'infila la pistola nella cintura e tira fuori un pacchetto di sigarette.
"Ti dà fastidio se fumo?" mi chiede.
Faccio cenno di no con la testa, mentre continuo a rispondere a monosillabi a mia madre. Lui si scopre il viso e si accende una Marlboro di contrabbando. Passano i minuti.
"Sentite, mi dispiace ma devo andare in centro, la mia ragazza stacca dal bar tra dieci minuti," è quello col passamontagna, che nel frattempo se lo è sfilato e ora l'appoggia sul bancone prima di andarsene. Lascia aperta la porta.
"Allora ci vediamo stasera, o domani. Ciao guaio'," e anche Calzamaglia a Fiori se ne va, dopo aver lasciato il coltello da macellaio davanti a me, accanto alla passamontagna.
Anche Strofinaccio da Cucina si allontana, accendendosi un'altra sigaretta. Poi torna indietro rapido e lascia la sua pistola accanto al coltello da cucina. Saluta in silenzio, per non disturbare, e mi fa cenno di salutare mia madre da parte sua. Rimaniamo solo io, MaLa, l'Impiegato e mia madre.
"Va bene, sì, ti chiamo presto. Sì sì, prestissimo. Ciao" e riesco ad attaccare. Il telefono è bollente, me lo infilo in tasca e mi guardo intorno nella penombra. L'impiegato, che si era assopito, ha un sussulto e si risveglia. Io comincio a raccontare a MaLa le fasi salienti della conversazione col la mia genitrice.
"Allora, 'sta stanza: la prendete?" mi interrompe l'impiegato.
"No," rispondo io dopo uno sguardo d'intesa con MaLa. "Credo che andremo a Trieste per una merenda a base di prosciutto cotto e senape, e poi guideremo tutta la notte attraverso la Slovenia e la Croazia per andare a dormire in una casa semidiroccata nella campagna sperduta nel nulla di Karlovac."
E così abbiamo fatto.
MaLa, invece, l'ha vista così.
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