Ho fatto una cazzata. Di quelle che poi raccontano gli altri, su di te, terminando poi con “Chi sa poi perché l’ha fatto, non era da lui”. Invece ho avuto fortuna, e sono qui a raccontarlo io in prima persona, senza giustificazioni finali a risollevare la mia figura. Sono ancora vivo, e avrò spero altre occasioni per farlo. Sempre che abbia un senso. Sono fuori casa per lavoro da tre settimane. Da due qui a Marina di Ravenna. Sono tre settimane che mi alzo all’alba, scendo al porto sperando di trovare il bar aperto per un caffè - ancora non ho capito che orari faccia, il bar - arrivo in barca, monto i computer, collego i cavi, accendo il motore e aspetto il mio collega spagnolo. Lui in realtà è Basco. A parte dal cappello, lo si può subito indovinare dall’aspetto alto e allampanato, duro e silenzioso, appena stemperato dal suo essersi ribellato in giovane età: scoperto il sole a Tenerife, durante gli anni dell’università, a prendere il freddo di Bilbao non c’è più tornato. Ma il giovan
Tre ancoraggi di seguito in porto non li avevo ancora mai fatti. Il primo, cime in banchina e passerella pure, quando sono andato a mettere in tiro la catena l’ancora è venuta su come fosse stata calata non nella sabbia ma nel burro fuso. Il porto è quello di Skinousa. Siamo arrivati qui dopo tre ore di viaggio da Paros, spinti a otto nodi al giardinetto col solo fiocco terzarolato dal meltemi ancora gagliardo, e incredibilmente c’è posto al molo principale. C’è però, pare, anche la fregatura: le leggende dicono che qui di fronte ci sia “una buca” piena di posidonia. O forse capiamo male il vicino danese, e il problema è che nella buca - lei una costante che rimane in tutte le versioni del mito - la sabbia è solo un sottile strato sopra una roccia liscia come un biliardino appena comprato. Quindi bisogna calare l’ancora “più in là”. Dove, più in là? “Vicino al pescatore, come ho fatto io”. Il pescatore è quasi in spiaggia, dall’altra parte del piccolo golfo. “Ma quanta catena hai dato