Teoricamente il pezzo forte della giornata appena trascorsa avrebbe dovuto essere l'attraversamento dei Dardanelli in ferry boat. Avevo già in mente la descrizione romantica del vento che spiana le onde e ci accompagna sulle acque dall'Asia all'Europa, da Troia alla Macedonia. Ed è più più o meno stato così, a parte per il dettaglio che il vento spirava da nord, cercando di impedirci lo sbarco in terra amica.
In realtà, però, il clou di oggi sono state le tre ore perse alla dogana turca, rimbalzato da un ufficio all'altro senza avere nemmeno la possibilità - se non negli ultimi cinque minuti - di capire il motivo e la causa profonda delle mie traversie.
È andata che alla prima barriera abbiamo mostrato i passaporti, e i visti turistici di residenza. Al secondo ufficio, sempre senza scendere dalla macchina, abbiamo mostrato solo i passaporti. Il tipo baffuto ci ha mandato via rapido con un gesto della mano e un "Tamàn, Carlo". Al terzo e ultimo posto di blocco l'omino in divisa ci ha chiuso il passaggio a livello davanti al naso e ci ha spiegato, in un inglese appena più forbito di quello parlato da Gengis Khan, che dovevamo tornare all'Ufficio Quattro. Ovvero dal baffuto.
Abbiamo allora fatto tutta la strada all'indietro, contromano (fortuna che i turchi sono abituati, e nessuno s'è innervosito nel dover accostare tra i tir in coda per lasciarci passare), abbiamo parcheggiato ed è cominciata l'avventura.
Il baffuto parla inglese, ed è anche gentile. Decisamente più gentile di tutta la media dei doganieri turchi, comunque.
Mi spiega che il problema è che io, entrando con il passaporto, avevo un visto valido tre mesi. Avrei sforato alla grande, se non fosse che con la residenza turistica posso star dentro quanto voglio. Per sistemare le cose basta firmare una dichiarazione. Me la stampa, io la firmo. E qui entro nel fantastico mondo dei Vogon.
La mia dichiarazione, infatti, va timbrata dal Director che si trova vicino al container bianco. Attraverso un varco nella recinzione della dogana, passo i tir in fila per entrare in Turchia e vado al container bianco. Dal container bianco, dopo appena quindici minuti di attesa, mi indirizzano nell'edificio alle sue spalle. Il Director è nell'unico occupato dei nove uffici del primo piano. Lo riconosco per i piedi sopra la scrivania. Mi firma immediatamente il foglio, ma poi devo aspettare perché devo anche timbrarlo. E non lo fa lui, ma l'unico impiegato presente nelle 16 scrivanie della grande area comune centrale. Ora l'unico impiegato non c'è, però, è in pausa.
Dopo altri quindici minuti ho i documenti in regola e torno, attraversando di taglio l'intera dogana, dal baffuto. Il quale si mette al computer, fermando nel contempo tutto il traffico dalla Turchia alla Grecia - lui è l'unico incaricato dei controlli qui a Ipsala - per poi, dopo altri quindici minuti, spiegarmi che c'è un errore nel sistema e da qui non può risolverlo: devo andare nell'ufficio dietro il duty free, dove un suo amico mi aspetta per completare le pratiche.
Nell'ufficio dietro il duty free passo una buona mezz'ora, seduto su un divano davanti a due impiegati. Solo uno dei due conosce alcune parole base in inglese, tra cui "penalty" - immagino di deriva calcistica. L'altro, però, quello a destra, a gesti mi fa capire che non posso usare il telefono. O forse che non posso sedermi scomposto. Non so, in effetti, però dopo essere stato ripreso così, a vanvera, l'ultima traccia di sorriso svanisce.
Dopo un tempo infinito, passato a respirare il fumo delle loro sigarette attraverso la cui nebbia a stento riesco a leggere un cartello che avverte "Vietato fumare", l'impiegato a sinistra mi spiega quasi a gesti che il problema è cambiato, ed ora è che per la legge turca avrei dovuto avvertire la dogana prima di lasciare il paese per tre settimane, ad agosto, per andare a lavorare in Grecia su Orpheas. Pare che io e la macchina avremmo dovuto rimanere costantemente nello stesso posto. Vagli a spiegare che la macchina era a Kas, e io sono uscito da Marmaris, e che comunque nessuno mi ha mai avvertito di questa legge turca nonostante in tanti sapessero benissimo cosa stavo per fare.
Per sistemare la faccenda servono i documenti della mia entrata, documenti che lui sta richiedendo alla frontiera con la Bulgaria, quella che ho passato ad aprile. Arrivano, via mail, dopo un'oretta appena.
Ora posso tornare dal baffo. Pare. Poi dovrò pagare e poi boh, me lo diranno loro. Vado.
Il baffo blocca di nuovo il traffico dell'intera dogana per immettere di nuovo i miei dati nel suo computer. Digita per quindici minuti buoni, per poi tirar fuori un foglio stampato. Con quello devo andare di nuovo al container bianco dove calcoleranno la mia multa. Poi dovrò farmi firmare il foglio della multa dal Director. Di nuovo. E infine tornare qui da lui.
Dal container vengo però spedito verso l'ennesimo ufficio, in un diverso edificio, che deve tirar giù da internet delle informazioni sulla mia macchina che loro da lì non sanno ricavare. Poi di nuovo al container, poi di nuovo al Director. Poi dal baffo.
Il baffo interrompe di nuovo il traffico doganale per inserire di nuovo i miei dati nel computer. È lunga, stavolta. Alla fine produce una ricevuta: devo andare al cash office per pagarla. L'ufficio cash è vicino al Director, ma occhio che non accettano carte di credito, e vogliono più lire, assai di più, di quelle che mi son rimaste in tasca. Per cui aggiungo al percorso una visita al bancomat.
Attraverso di nuovo la frontiera, ritiro i soldi, vado a pagare, ritirano la mia ricevuta e ne producono un'altra, timbrata. Devo riportarla al baffo. Attraverso di nuovo la frontiera, il baffo blocca di nuovo il traffico per inserire di nuovo i miei dati nel computer. Mi dà un nuovo foglio: devo portarlo al suo amico nell'ufficio dietro il duty free, che deve fotocopiarlo, e poi tornare qui da lui.
Lo faccio, senza neppure più la curiosità di sapere quale sarà il prossimo ufficio che dovrò visitare, né quando finalmente la smetterò di dovermi ripresentare dal baffo come fossi il protagonista de "Il giorno della marmotta".
E invece, improvvisamente, costui mi dà l'ok: posso andare. Con tre ore di vita e 150 euro in meno, lasciamo finalmente la Turchia, attraversiamo la terra di nessuno e ci mettiamo in fila per entrare in Grecia.
Da questa parte niente da segnalare, a parte la domanda della poliziotta: "Avete niente da dichiarare? Alcol?" alla quale nemmeno lei riesce a rimaner seria. Solo un folle, o un Vogon, potrebbe pensare di comprare alcol in Turchia per venderlo profiquamente in un qualsiasi altro posto dell'Universo.
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