L'albergo ha la vasca termale in camera. L'acqua esce dal rubinetto a 60°C ed è quella chiamata "red thermal water", dove per "red" si intende il colore marrone del fango rimestato. A parte questo, la stanza è piccola, il letto pure, così come le lenzuola e le coperte: la notte si rivela un lento e angosciante dormiveglia - facilitato dalla luce dei lampioni che entra indisturbata dalla finestra priva di tende - passato a tirarci l'un l'altra le misere stoffe che dovrebbero difenderci dal freddo montano.
La sveglia ci trova gonfi di sonno arretrato, e irritabili. Montati in macchina ci dirigiamo verso la rotonda che porta all'uscita del paese. È un montarozzo di travertino alto tre metri, con un diametro di forse dieci, dal cui cucuzzolo scende acqua termale calda. Molto suggestivo.
Peccato che sbagliamo strada, e torniamo a girarci intorno. E poi la sbagliamo di nuovo, e di nuovo. E ogni volta ci ritroviamo a orbitare attorno alla sorgente del paese, sempre più nervosi, fino al prevedibile scazzo finale.
Passiamo imbronciati davanti a Pammukkale, il cui nome pare significhi "Castello di cotone", e poi lungo tutta la valle, coltivata, guarda caso, a cotone. Bianchi batuffoli di bambagia sparsi ovunque: nei campi sterminati, ai bordi delle strade o nell'aria, strappati dal vento ai trattori stracarichi, movimentati in enormi magazzini da ruspe immense. La curiosità ci distrae, e nostro malgrado ritroviamo il sorriso.
Intanto continuiamo a guidare. Passiamo dai campi punteggiati di bianco a vigneti infiniti, che se sostituissimo le moschee con le torri merlate saremmo nella val d'Orcia. E poi uliveti. Decine di chilometri di ulivi. E infine, scesi dall'altipiano, i meloni.
Arrivati al mare scopriamo di essere all'altezza di Lesbo. È lei quell'isola in mezzo al mare, sulla nostra sinistra, così a portata di mano. Ma noi continuiamo verso nord, oltrepassando anche Troia, senza fermarci per paura di essere sopraffatti dal sonno. E infine arriviamo a
Çanakkale.
L'albergo è decente, la città è viva, piacevole, amichevole. Ci facciamo una birra in un pub che potrebbe essere gemellato col Pigneto, mangiamo sardine e calamari fritti in una bettola della città vecchia sorseggiando la bibita locale, ovvero succo di sottaceti. Passeggiamo tra pasticcerie, sale da tè, caffetterie piene di uomini e donne che giocano a carte e a mahjong, pescatori con le lunghe canne puntate nel buio pieno di correnti dei Dardanelli, improbabili cavali di Troia pargheggiati in attesa di un ritardatario Ulisse sul lungomare cittadino.
Domani, se tutto va bene, attraverseremo in traghetto quel poco di mare che rimane a separarci dall'Europa.
Ma anche qui non si sta poi così male.
Domani, se tutto va bene, attraverseremo in traghetto quel poco di mare che rimane a separarci dall'Europa.
Ma anche qui non si sta poi così male.
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