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Folegandros: bella (ma non) per noi

Il vero marinaio si vede - lo sanno tutti - dalla sagace modestia con cui asseconda il vento. Per questo da Despotiko, sotto Antìparos, con vento da Sud Ovest, cerco di convincere l'equipaggio ad andare - invece che alle piccole Cicladi, perfettamente sottovento - a Folegandros. Rotta Sud: 25 miglia di bolina stretta.
"Preferite spiagge bianche e acqua azzurra, come stiamo vedendo ormai da tre giorni, e comunque vedremo di nuovo a Schinousa, o un'isola recondita con un porticciolo deserto e una chora suggestiva?"
E, per addolcire la pillola: "Proviamo mezz'ora: se l'onda monta e cominciano gli schizzi accostiamo a sinistra e torniamo ai programmi precedenti"
Messa così non potevano che assecondarmi, e quindi siamo partiti nella tarda mattinata, abbiamo saltato il pranzo, siamo stati sballottati per cinque ore e infine schiaffeggiate dalle raffiche nell'ultimo miglio.

Arriviamo al porticciolo deserto insieme a una barca a motore, due a vela, un traghetto e un aliscafo. Noi siamo i terzi: i primi due si infilano in banchina, belli larghi in maniera da occupare anche il posto che avrebbe potuto essere il nostro. Quando è il nostro turno la poliziotta sul molo comincia a fischiare e a farci cenni: dobbiamo dare acqua al traghetto.
Cominciamo a vagare nella rada, zigzagando tra le barche alla fonda. Già: questo porticciolo deserto è stranamente pieno di barche alla fonda. Ogni volta che proviamo a mettere a folle e aspettare immobili la guardia si convince che vogliamo dare ancora e soffia nel suo fischietto. Continuiamo a girare, mentre l'ultima barca a vela prova una due tre volte ad ancorare, ogni volta cacciata dalla tipa sul molo, fino a che, semplicemente, se ne frega e rimane leggermente discosta ma comunque in mezzo all'area che a noi, fino a poco fa, era stata proibita.
Gli occupanti delle altre barche, in compenso, sono estremamente gentili e disponibili. Mi raccontano delle boe oltre le quali non è possibile stare - anche se ci stanno tutti - del vento che girerà nella notte, mi descrivono lunghezza e qualità del loro calumo. Arriva anche l'aliscafo, e di nuovo i fischi - gratuiti e ingiustificati - della tizia sul molo. Va via il traghetto, dopo aver rigurgitato un'impressionante quantità di trolley ognuno col suo umano al seguito. Va via anche l'aliscafo, e noi proviamo ad infilarci in quello che ci sembra un posto.
 

Solita manovra: punto di lontano, MaLa controlla e apre il verricello in maniera da calare la delta libera dalle altre catene, io vado in testacoda e mi infilo rapido di poppa. A metà testacoda, quando già le barche sul pontile stavano preparando i parabordi, arriva un urlo: è l'harbour master, finora rimasto nascosto, lui e il suo gilet giallo, che in malo modo ci dice che non va bene dove stiamo andando. Ok, gli chiedo: dove allora? Più in là, mi fa. Più in là c'era l'aliscafo, mi pare strano mi ci faccia mettere, ma contento lui... Ritiriamo su trenta metri di catena, tra le raffiche. Due coatti con la bandana rossa, dalla prua di un ketch, gasandosi l'uno con l'altro cominciano ad inveire urlando "Ti canis?"
"Gentili, ti chiedono come stai" osserva Patti.
Veramente detto così suona più "Che cazzo fai?" e dà un'immediata idea delle qualità umane e nautiche dei due simpaticoni, che temono io abbia dato ancora come a loro: a caso, e che quindi rischi di tirare via anche la prua del loro inutile ketch. Ovviamente questo non succede, e sto per tornare indietro a retromarcia per sfoggiare il mio greco migliore, e affrontare la necessaria conseguente rissa, prima di andare a mettermi dove vuole l'harbour master, quando arriva di nuovo il fischio della guardia che, anche lei non capendo nulla di quello che sta succedendo, priva di qualsiasi volontà di capire e in completa dissonanza col suo stesso collaboratore, ci grida che al molo non possiamo avvicinarci, dobbiamo solo andar via. Lo faccio volentieri, sgasando verso la rada, mentre MaLa indirizza a tutti gli indigeni sopra elencati i migliori e più coloriti auguri in voga tra Torpignattara, Centocelle e il Pigneto. Ne mima anche alcuni, improvvisando uno spettacolo che chiude il nostro primo teatrino qui nel porto deserto traboccante di barche di questa isola recondita assediata dai turisti.
 

Passati al quadro successivo la nostra avventura vuole che diamo ancora su una chiazza di sabbia, senza finire contro gli altri, senza sconfinare nell'area proibita e tenendo conto che nella notte il vento girerà di 180° spingendoci verso gli scogli della costa. Riusciamo al terzo tentativo e senza litigare con nessuno, a dimostrazione che tra gente di mare ci si intende, e il problema non siamo noi.
Dopo il bagno, la birra e le patatine, arriva il momento di esplorare quest'isola così lontana dalle comuni rotte da avere solo un traghetto ogni ora a disturbare la quiete del suo inutile porto la domenica pomeriggio. Due viaggi con il tender e siamo a terra. Il bus per la chora non ci prende su: siamo in troppi. Noi: quelli prima no, sono entrati tutti. cerchiamo allora una taverna e, dopo aver constatato con perplessità che qui la traduzione pare sia "Restaurant" entriamo in quella le cui proprietarie, madre e figlia, sembrano più simpatiche.
La tipa finge di non parlare italiano e ci lascia ordinare nella sua lingua. Annuisce con costruita soddisfazione ad ogni piatto aggiunto alla lista, e di suo decide di capire male e portarcene un paio in più. Ne esce un pranzo esagerato a base di calamari ripieni, verdura lessa, verdura al forno, rape rosse, salsa all'aglio, polpette di carne e alici fritte. Il tutto di gusto buono e qualità mediocre.

Dalla terrazza del "Restaurant" intanto, vediamo il porto. Tre motoscafi di 15m arrivano uno dopo l'altro, e ormeggiano tranquillamente al molo accolti e guidati dall'harbour master. Chi sa perchè.
Al momento di pagare il conto capiamo il perché della locale traduzione di "Estiatorio".
Dopo aver pagato, caro, anche il karpuzi di fine pasto, saliamo finalmente alla chora per il sospirato pellegrinaggio che ci farà definitivamente capire che un'isola è recondita solo nel tuo cervello, se hai avuto cura di mantenerlo ignorante.

La Grecia come l'avrebbe disegnata Walt Disney ci aspetta in cima alla salita. Case bianche, viuzze bianche, gente in abiti bianchi. Metà paese è alberghi e resort, l'altra è ristoranti. La gente mangia ovunque, e ovunque non c'è nemmeno un mozzicone di sigaretta fuoriposto. Ce ne sono, di mozziconi, ma posizionati con cura da uno stilista italiano.
Una vera delizia per l'occhio. Davvero, sono serio: è bellissima, anzi meravigliosa, forse la più bella chora abbia mai visto. Ma anche assolutamente vuota per l'anima. Ce ne andiamo in fretta, dopo aver cercato invano un angolo stonato, un maglioncino stropicciato un'acconciatura non alla moda, tornando con la mente alla vecchina nell'unica casa decrepita del paese, quella proprio accanto al belvedere. Chi sa in quanti staranno aspettando da anni la sua morte, per mettere le mani su quello che sarà - una volta leccato come tutto il resto - il ristorante più bello di Folegandros.

Al porto, Duna si è difesa bene. Il vento ha girato ma la catena resiste, e non finiamo a scogli. Certo, rischiamo di affondare col tenderino perché nel frattempo entra mare da Nord Est, in questo ridicolo ridosso piazzato proprio dove d'estate il vento è sempre da Nord Est, ma riusciamo a salvarci nonostante ogni aspettativa, ad asciugarci e ad andare a letto. Dopo un'ora però siamo ancora svegli.
"Partiamo appena fa giorno?" mi propone MaLa.
"Certo!" rispondo io, e cerco di prendere sonno nonostante la centrifuga a pieni giri in cui ci siamo volontariamente ficcati. E così faremo, confermando ancora una volta la modesta saggezza del marinaio che sceglie appositamente la sua rotta per ritrovarsi sempre e comunque di bolina. Neanche mi piacesse, la bolina.

Folegandros si allontana nella nebbia dell'alba, regalandomi come ultima delusione il bustone di plastica che abbocca al mio artificiale. Cosa mi resta? Una croce sulla mappa. Un buco prima sconosciuto, dove non tornare, ora con coscienza.
Che poi, tengo a precisare, non giudico male l'isola, e nemmeno i suoi abitanti. Si sono attrezzati per vivere al meglio su un sasso sperduto in mezzo al mare, fuori da qualsiasi rotta commerciale, sfruttando la bellezza che hanno intorno. Mica potevano continuare a coltivare le rocce scoscese, e a pascolare le capre, partendo la mattina alle cinque col somaro e tornando al tramonto, solo per fare un piacere alla mia anima.
La colpa è la mia, potevo informarmi. Per cui va bene, va tutto bene, sono davvero contento per loro. Anche per la stronza col fischietto e il mafiosetto col gilet giallo. Gli auguro successo e prosperità.
Solo, non tornerò a controllare.

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