A settembre, di ritorno dalla nostra avventura agostana su Orpheas, abbiamo conavigato insieme a Filippo ed Eli lungo la costa turca, scendendo da Marmaris fino a Fethiye. A un giorno di vela dal porto di partenza c'è un golfo grazioso, quello di Ekincik, dove - almeno fuori stagione - è possibile incontrare persone speciali. La nostra guida ci ha avvicinato sul suo grosso gozzo turistico, ricoperta di tappeti, per proporci la classica gita a Caunos. Eravamo all'ancora, cime a terra, all'esatta ora in cui, capelli ancora umidi dall'ultimo bagno (chi li ha) e bicchiere pieno di birra in mano, il languore del tramonto mal si adattava a contrattazioni in stentato inglese a proposito di gite su fiumi evidentemente paludosi a vedere le ennesime rovine e le ennesime tombe rupestri licie. Che a contare quante ne hanno lasciate parrebbe che morire fosse la loro principale occupazione.
Ma Hidayet era simpatico e così, tra un brindisi e il successivo, ci aveva convinto a prenotare la gita per il mattino successivo.
Qui sotto le impressioni, scritte in quei giorni.
Caunos
Il teatro si affacciava sul porto. Dalle gradinate più alte gli spettatori potevano scrutare il bacino circolare protetto dai due alti promontori, e il mare subito fuori, interrotto a poche centinaia di metri dalla penisola montagnosa - ai piedi della quale risorgono sorgenti sulfuree - che lo difendeva dalle onde di maestrale.
Ora i terremoti hanno squassato le sedute di marmo, e tre olivi occupano il posto riservato ai cittadini di Caunos.
Siamo arrivati per primi, e abbiamo goduto di una fortunata solitudine prima dell'arrivo delle orde di turisti tirati su a mucchi con il trattore dalla vallata sottostante.
Siamo arrivati dal mare, noi, e poi dal fiume e infine dalla palude che ora circonda questo posto negandogli l'accesso più importante, quello per cui era sorta qui, questa città, a cavallo tra due golfi protetti, a ridosso dell'alta montagna.
Siamo arrivati delicatamente, pur accompagnati dal rombo del motore, seguendo i meandri sinuosi bordati dai canneti in cui si nascondono i granchi blu che, essendo - pare - afrodisiaci, la madre della nostra guida vietò al di lui padre dopo aver partorito il quinto figlio.
Anno dopo anno, metro dopo metro, la pianura è avanzata nel grande golfo sul quale Caunos si affacciava. Stagione dopo stagione, i canneti hanno preso il posto delle rive rocciose, e la sabbia ha insidiato i due porti della città.
Chi sa se era argomento di conversazione, qua su, in attesa dello spettacolo. Qualcuno forse ricordava che, quando era piccolo, non c'era quella lingua di terra sulla sinistra, appena al di là delle mura. Forse qualcuno ha inizialmente sostenuto che non era poi un male: così il porto era maggiormente protetto dai venti da sud, che certo prima portavano risacca fino ai moli interni.
E poi, un anno, le navi più grandi hanno cessato di arrivare, bloccate dalla barra del fiume. E forse, di lì a poco, la malaria si è diffusa, a ondate. La gente ha cominciato ad andar via. Prima i marinai, poi i mercanti. Le taverne hanno chiuso, e così gli ostelli. E i pescatori, coi loro barchini, sono rimasti i soli a frequentare il porto.
E poi nemmeno loro, perché non era rimasto più nessuno a cui vendere il pesce faticosamente pescato laggiù, lontano, in mare aperto.
Solo capre, e rari nomadi, e asini. Fino alle orde di turisti tirati su col trattore.
Perché grazie a loro, in fondo, Caunos vive ancora.
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Tra l'altro, visto il riscaldamento globale e gli oceani che salgono di livello, Tra qualche anno potrebbe essere conveniente comprare un posto barca qui.
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