Tre ancoraggi di seguito in porto non li avevo ancora mai fatti. Il primo, cime in banchina e passerella pure, quando sono andato a mettere in tiro la catena l’ancora è venuta su come fosse stata calata non nella sabbia ma nel burro fuso.
Il porto è quello di Skinousa. Siamo arrivati qui dopo tre ore di viaggio da Paros, spinti a otto nodi al giardinetto col solo fiocco terzarolato dal meltemi ancora gagliardo, e incredibilmente c’è posto al molo principale. C’è però, pare, anche la fregatura: le leggende dicono che qui di fronte ci sia “una buca” piena di posidonia. O forse capiamo male il vicino danese, e il problema è che nella buca - lei una costante che rimane in tutte le versioni del mito - la sabbia è solo un sottile strato sopra una roccia liscia come un biliardino appena comprato. Quindi bisogna calare l’ancora “più in là”. Dove, più in là?
“Vicino al pescatore, come ho fatto io”.
Il pescatore è quasi in spiaggia, dall’altra parte del piccolo golfo.
“Ma quanta catena hai dato, così per curiosità?”
“Ottanta metri,” mi risponde il vichingo.
Otttanta metri ce li ho pure io, ma non voglio rischiare di fermarmi a metà strada senza arrivare in banchina, per cui decido che è meglio lasciar perdere il pescatore, troppo ambizioso, e calare la mia delta una ventina di metri dopo, all’altezza della barca blu.
La barca blu è la seconda. Poi, venendo verso il molo, ce n’è una terza, e anche una quarta. Tutte con le cime a terra sul lato est del golfo e le catene ortogonali a noi in banchina: messe così è automatico che si intreccino. Il che è un po’ assurdo, a pensarci, visto che questa è appunto una banchina, anzi "la" banchina, e quella roccia nuda.
Prese le informazioni e fatta una media tra quelle fornite dal vicino sottovento, danese, e quello sopravento, romano nato, cresciuto e invecchiato a Corso Trieste, esco fuori con numeri da circo per non raschiare tra le raffiche (ci sono sempre le raffiche, in questi casi, e durano giusto il tempo dell’emergenza per poi calare improvvisamente e improvvidamente a lasciarti boccheggiante ad addugliare le cime) le murate dei vicini. Vado a prendere accordi col tipo della barca blu perché ci dia lui l’ok per essere franchi dal suo calumo, e caliamo l’ancora per la seconda volta. Le facciamo fare presa come da manuale, ci giriamo e andiamo in banchina... e la catena finisce quando mancano appena tre metri. Ma come, mi dico, gli ottanta metri del danese arrivano fino al pescatore, e miei non bastano per arrivare in banchina partendo venti metri più in qua?
La terza volta il tipo della barca blu fa gesti ampi con le braccia dalla prua, come a dire che abbiamo rotto le palle con questo andirivieni. Teme per la sua fottuta ancora, come se calandola di traverso al molo non fosse lui stesso ad averla messa a rischio. Cerca complicità con il vicino, anche lui a prua ma meno espressivo. Scocciato, chiamo in causa l’ironia rimastami e mi avvicino di nuovo, stavolta per annunciargli che più tardi, finito lo spettacolo, passeremo con il cappello. Preparasse gli spicci. Non ride, ma almeno smette di dimenarsi come un tricheco in amore. Scegliamo bene il posto: che sia sabbia, che sia oltre la posidonia, che sia oltre la prua della barca del tricheco perché da lì già abbiamo visto che ottanta metri non ci bastano. MaLa cala la nostra delta, e ovviamente quando l’ancora fa testa il tipo dell’HR cime a terra di traverso ci urla che abbiamo preso la sua ancora. MaLa ha finito la pazienza e bestemmia. Io, prosaico, gli chiedo, urlando attraverso il porto e l’eco dell’imprecazione che ancora ora rimbalza tra una parete e l’altra della rada, cosa vuole che io faccia: preferisce che ritiri su tutto, probabilmente spedandolo, o che finisca la manovra. Sceglie la seconda. Fine problema ormeggio.
Cristina e Paolo scendono a baciare la terra. Io e MaLa ci tuffiamo e nuotiamo fino al centro, dove scopriamo che almeno cinque barche avranno problemi, domani. Scopriamo inoltre che il danese è un cazzaro: la sua ancora NON è vicino al pescatore ma accanto alla nostra. E anche che abbiamo davvero agganciato la catena dell’HR.
Pinne e maschera, mi allungo fino da lui e gliene parlo. Lui, Adonis, è persona civilissima e - cretese - ovviamente avvezza ai mari greci. Se fosse capitato con il tricheco in amore sarebbe finita a schiaffi, e con l’olandese di Poros probabilmente a coltellate. Invece qui ci mettiamo d’accordo per salpare la mia delta, domani, con una cima passata nel diamante, in maniera da non arrecare danno al suo ancoraggio. Cosa che poi ho fatto.
A dimostrazione che la pace in Terra è possibile, ma solo tra uomini di buona volontà.
Il porto è quello di Skinousa. Siamo arrivati qui dopo tre ore di viaggio da Paros, spinti a otto nodi al giardinetto col solo fiocco terzarolato dal meltemi ancora gagliardo, e incredibilmente c’è posto al molo principale. C’è però, pare, anche la fregatura: le leggende dicono che qui di fronte ci sia “una buca” piena di posidonia. O forse capiamo male il vicino danese, e il problema è che nella buca - lei una costante che rimane in tutte le versioni del mito - la sabbia è solo un sottile strato sopra una roccia liscia come un biliardino appena comprato. Quindi bisogna calare l’ancora “più in là”. Dove, più in là?
“Vicino al pescatore, come ho fatto io”.
Il pescatore è quasi in spiaggia, dall’altra parte del piccolo golfo.
“Ma quanta catena hai dato, così per curiosità?”
“Ottanta metri,” mi risponde il vichingo.
Otttanta metri ce li ho pure io, ma non voglio rischiare di fermarmi a metà strada senza arrivare in banchina, per cui decido che è meglio lasciar perdere il pescatore, troppo ambizioso, e calare la mia delta una ventina di metri dopo, all’altezza della barca blu.
La barca blu è la seconda. Poi, venendo verso il molo, ce n’è una terza, e anche una quarta. Tutte con le cime a terra sul lato est del golfo e le catene ortogonali a noi in banchina: messe così è automatico che si intreccino. Il che è un po’ assurdo, a pensarci, visto che questa è appunto una banchina, anzi "la" banchina, e quella roccia nuda.
Prese le informazioni e fatta una media tra quelle fornite dal vicino sottovento, danese, e quello sopravento, romano nato, cresciuto e invecchiato a Corso Trieste, esco fuori con numeri da circo per non raschiare tra le raffiche (ci sono sempre le raffiche, in questi casi, e durano giusto il tempo dell’emergenza per poi calare improvvisamente e improvvidamente a lasciarti boccheggiante ad addugliare le cime) le murate dei vicini. Vado a prendere accordi col tipo della barca blu perché ci dia lui l’ok per essere franchi dal suo calumo, e caliamo l’ancora per la seconda volta. Le facciamo fare presa come da manuale, ci giriamo e andiamo in banchina... e la catena finisce quando mancano appena tre metri. Ma come, mi dico, gli ottanta metri del danese arrivano fino al pescatore, e miei non bastano per arrivare in banchina partendo venti metri più in qua?
La terza volta il tipo della barca blu fa gesti ampi con le braccia dalla prua, come a dire che abbiamo rotto le palle con questo andirivieni. Teme per la sua fottuta ancora, come se calandola di traverso al molo non fosse lui stesso ad averla messa a rischio. Cerca complicità con il vicino, anche lui a prua ma meno espressivo. Scocciato, chiamo in causa l’ironia rimastami e mi avvicino di nuovo, stavolta per annunciargli che più tardi, finito lo spettacolo, passeremo con il cappello. Preparasse gli spicci. Non ride, ma almeno smette di dimenarsi come un tricheco in amore. Scegliamo bene il posto: che sia sabbia, che sia oltre la posidonia, che sia oltre la prua della barca del tricheco perché da lì già abbiamo visto che ottanta metri non ci bastano. MaLa cala la nostra delta, e ovviamente quando l’ancora fa testa il tipo dell’HR cime a terra di traverso ci urla che abbiamo preso la sua ancora. MaLa ha finito la pazienza e bestemmia. Io, prosaico, gli chiedo, urlando attraverso il porto e l’eco dell’imprecazione che ancora ora rimbalza tra una parete e l’altra della rada, cosa vuole che io faccia: preferisce che ritiri su tutto, probabilmente spedandolo, o che finisca la manovra. Sceglie la seconda. Fine problema ormeggio.
Cristina e Paolo scendono a baciare la terra. Io e MaLa ci tuffiamo e nuotiamo fino al centro, dove scopriamo che almeno cinque barche avranno problemi, domani. Scopriamo inoltre che il danese è un cazzaro: la sua ancora NON è vicino al pescatore ma accanto alla nostra. E anche che abbiamo davvero agganciato la catena dell’HR.
Pinne e maschera, mi allungo fino da lui e gliene parlo. Lui, Adonis, è persona civilissima e - cretese - ovviamente avvezza ai mari greci. Se fosse capitato con il tricheco in amore sarebbe finita a schiaffi, e con l’olandese di Poros probabilmente a coltellate. Invece qui ci mettiamo d’accordo per salpare la mia delta, domani, con una cima passata nel diamante, in maniera da non arrecare danno al suo ancoraggio. Cosa che poi ho fatto.
A dimostrazione che la pace in Terra è possibile, ma solo tra uomini di buona volontà.
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