Ogni anno i charter sono più larghi. Qui a Egina, appena cinque stagioni fa, a giugno eravamo tutte barche armatoriali di dieci, dodici metri, appena uscite dai cantieri del nord dell’isola. Ora, agli inizi del mese, noi siamo gli unici sotto i tredici. E gli unici armatori.
I charter, cinque anni fa, erano lunghi 40 piedi. 45’ i più lussuosi. Ora il polacco slavato si gode la primavera greca minimo su un 55, largo come una portaerei. Senza contare i catamarani, che tentano di entrare in porto alle sette del pomeriggio pensando di essere nella baia di Le Marin.
Qui il porto si paga per lunghezza, e le barche commerciali hanno quasi il 70% di sconto. Quindi di fatto un catamarano a noleggio di 55’ paga meno di me. Ne entrano quattro e il porto sparisce.
I greci questo lo sanno, e per tentare di arginare il danno economico hanno raddoppiato le tariffe. Il che, per i polacchi di cui sopra, che hanno pagato cinquemila euro in dodici per la settimana in “barca a vela”, è comunque una quisquilia. Per noi, che siamo in due e restiamo qui sei mesi, è diventata una spesa importante.
E tagliamo le taverne, tagliamo le lavatrici, tagliamo quel che possiamo. Ci illudiamo, perversi, che questo possa avere una ricaduta visibile sull’economia locale: “Ecco, se ne accorgeranno che se pago 13 euro ogni notte in porto non posso affittare il motorino, perché il mio budget rimane lo stesso”. E forse questo è vero, a maggio e a ottobre. Ma nei restanti mesi della stagione il commerciante greco, mia faza mia raza, al massimo reagisce alle mie mancate spese con fastidio, non certo con solidarietà. E di diportisti ellenici in giro per i porti ellenici ce ne sono talmente pochi che non faranno certo sentire la differenza.
Così la nostra “eroica” resistenza a malapena rimarrà come testimonianza di un’epoca che, neanche tanto lentamente, se ne va. Una lotta per vendicare la nostra morte che nessun Simonide consegnerà alla storia.
I porti, anche i più scrausi, anche i più sgarrupati, sono tutti ormai a pagamento. Alcuni - Nisiros per esempio - economicamente inavvicinabili se non in equipaggio completo.
“Questo ora è un marina” mi ha spiegato il ragazzo dell’isola vulcanica lo scorso settembre, dopo avermi chiesto un euro e mezzo per metro. Io mi sono guardato intorno, e mi sembrava uguale identico a due mesi prima. Niente assistenza, niente corpi morti, anarchia completa negli ormeggi, e il canale di ingresso insabbiato. Ho pagato commentando, amaro, “Mi sembra evidente che tu un marina non l’hai mai visto neanche in foto.” Ha fatto spallucce, come un Turco di Marmaris. Mia faza mia raza, anche se detta così potrei attirarmi diverse antipatie.
E niente più Nisiros.
Se prima mi sembrava di essere beneaccolto in ogni porto, ora mi sembra di sentire addosso il giudizio, negativo, del cameriere della taverna dove ho ordinato solo una birra. E anche se c’è ancora posto accanto a me mi sento di troppo. Potrebbe essere solo paranoia, o forse la differenza è che ora capisco un po’ la lingua, conosco un po’ il paese, e so che l’idea romantica della Grecia come paradiso è, appunto, solo un’idea romantica dovuta all’ignoranza. C’è amicizia e invidia, altruismo e gelosia, bontà d'animo e cattiveria qui come altrove. C’è più spazio quindi è tutto più diluito, e teniamo a mente solo ciò che ci fa più piacere. Questo spazio ogni anno però si riduce, tra spiagge riservate, campi boe più o meno regolari, porti che si trasformano in marina per editto notturno, sciami di 55 piedi larghi quanto Duna è lunga che ormeggiano in obliquo con dieci metri di catena lasca.
E da una visione della sconfinata libera prateria dove navigare a piacere, quest’anno mi pesa sull’anima il suo opposto: l’orizzonte che si restringe attorno a me. I limiti che si avvicinano. Se prima i divieti erano misere macchie nel mio infinito universo, ora sono gli scampoli di libertà a galleggiare a malapena, pericolosamente assediati dal “nuovo che avanza”.
E se prima il charterista ubriaco, o incapace, o entrambe le cose, era un singolo personaggio - per quanto reiterato nel tempo e nello spazio fino a rappresentare intere banchine di barbari a Poros, o a Skiathos - ora è il simbolo vivo e scalpitante della “civilizzazione” che tutto addomestica, mastica, digerisce e defeca prima di passare a colonizzare, ovvero a cannibalizzare, il prossimo paradiso.
Dopo l’indignazione, dovuta, lo ammetto, all’ingiustificato snobismo del virgineo e stupido inesperto che ero, era subentrata un’accettazione zen, una curiosità, una simpatia quasi per le alterne forme del genere umano - purché non tentassero volontariamente o stupidamente di danneggiare Duna. Ora, nel vederli entrare in porto, enormi eppure strapieni, nell’aiutarli loro malgrado ad ormeggiare coscenziosamente le portaerei immanovrabili che qualcuno li ha convinti per denaro fossero alla portata di quella patente nautica spolverata una settimana l’anno, provo solo triste e malinconica angoscia.
La stessa angoscia, immagino, del Sioux scalcagnato ma orgoglioso che dal suo cavallo, cavalcato a pelo, osserva dall’alto l’infinita colonna di carri che da oriente si snodano fino al sole al tramonto. Carichi di genti vestite, di mobili, di specchi,di perline, di armi da fuoco e alcol. E all’improvviso si rende conto che è già troppo tardi, che il suo territorio non esiste più, e se sarà fortunato gli verrà offerta una riserva, nel luogo più brutto, scomodo e sfigato di quello che un tempo era una sconfinata prateria libera. E poi, quando sarà abituato a quel poco, gli toglieranno anche quello.
Stanno sterminando i bisonti: gli sparano dal treno, per gioco, per divertimento, per noia, per passare il tempo. Per far spazio alle case alle strade ai campi coltivati ai recinti e alle discariche. E io, che di bisonti e spazi liberi facevo la mia vita, per il futuro ho un brutto presentimento .
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