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LaBora

Ho fatto una cazzata.
Di quelle che poi raccontano gli altri, su di te, terminando poi con “Chi sa poi perché l’ha fatto, non era da lui”. Invece ho avuto fortuna, e sono qui a raccontarlo io in prima persona, senza giustificazioni finali a risollevare la mia figura. Sono ancora vivo, e avrò spero altre occasioni per farlo. Sempre che abbia un senso.
Sono fuori casa per lavoro da tre settimane. Da due qui a Marina di Ravenna.
Sono tre settimane che mi alzo all’alba, scendo al porto sperando di trovare il bar aperto per un caffè - ancora non ho capito che orari faccia, il bar - arrivo in barca, monto i computer, collego i cavi, accendo il motore e aspetto il mio collega spagnolo.
Lui in realtà è Basco. A parte dal cappello, lo si può subito indovinare dall’aspetto alto e allampanato, duro e silenzioso, appena stemperato dal suo essersi ribellato in giovane età: scoperto il sole a Tenerife, durante gli anni dell’università, a prendere il freddo di Bilbao non c’è più tornato.
Ma il giovane ribelle si è laureato in oceanografia, e - seppure al caldo sole della Catalogna - è rimasto povero fino a quando, come racconta lui, “è passato al nemico”.
Il nemico ovviamente sono le compagnie petrolifere, le società multinazionali di lavori marini e subacquei. Lo stesso lato oscuro che finanzia spesso le mie misere casse da free lance.
Lui ha fatto anche il passaggio successivo: per essere ben sicuro del suo stipendio ha definitivamente venduto l’anima al diavolo e ha firmato un contratto da dipendente. Il che in questi ambiti non si discosta molto da una vera e propria compravendita di merce viva. La differenza con la tanto vituperata schiavitù è solo che vitto e alloggio - quando non sei in trasferta - sono a carico tuo.
E così il mio collega basco di Barcellona va in giro col marchio della sua azienda ben stampato su ognuno dei suoi brillanti e nuovi capi di abbigliamento tecnico. E io l’ho anche invidiato, per questo, dal basso del mio giaccone Beta strappato sotto l’ascella, delle mie scarpe da lavoro anonime, dei miei pantaloni da battaglia. Fino a che non ho capito che la sua non è altro che una divisa: non è un favore che l’Azienda concede a lui, ma il segno continuo e onnipresente della sua sottomissione. Non ha venduto il suo tempo, ma la sua vita.
A me capita di lavorare anche per diciotto ore di seguito, per alcuni giorni, in emergenza. Poi spengo il telefono e lo riaccendo quando dico io. Lui è a disposizione 24 ore su 24, giorno e notte, ogni istante della sua esistenza.
A me capita di non sapere quando verrò chiamato per il prossimo lavoro, di non poter programmare una cena, una scampagnata, una gita, un incontro. E mi angoscio quando non mi chiamano, prima di disperarmi perché mi hanno chiamato. Però dètto le mie condizioni, cerco un compromesso: sono io che decido i tempi. Tra un mese saluterò tutti e me ne andrò fino a ottobre in Grecia. Tra due giorni è Pasqua, e sarò a casa con amici e parenti.
Il mio collega di Bilbao, residente a Barcellona in una casa dove non abita mai, domenica prossima sarà qui a lavorare. O a non fare niente. O forse all’ultimo momento gli concederanno di tornare a casa, per un singolo giorno. Mancano due giorni, e ancora non lo sa. E già sono sicuro, come lo è lui, che non accetterà il mio invito e non mi raggiungerà con la sua donna in barca, né a giugno né a luglio né a settembre.
Immagino che lo paghino tanto. O comunque più di quanto pagano me. Ma non lo invidio neanche un poco. Tanto che ogni giorno che passa con lui allontano sempre più da me l’insana idea di accettare il posto fisso che una compagnia con cui ho collaborato lo scorso anno mi ha proposto un mese fa. Certo, lo stipendio. Certo, la pensione. Ma l’equivalenza tempo=denaro è valida solo in una direzione: è l’entropia, ragazzi. Tenetelo a mente o ci rimarrete male, quando vi renderete conto che i soldi, da morti, non compreranno la vostra felicità.


Tutto questo esagerato cappello, che forse meriterebbe un post a parte, per arrivare finalmente - forse - al punto.
Sono stanco, passo le mie giornate al timone evitando le navi, i rimorchiatori, le pilotine, i pescherecci, le barche a vela e le derive che affollano porto e avanporto. E al contempo a seguire la rotta e a riempire col fascio del multibeam a me affidato le aree dragate dalla Costa Luz, una bestia di 90 metri che costa ai suoi proprietari - pare - quarantamila euro al giorno. Io, la mia persona in relazione alla Costa Luz intendo, sono una caccola. Talmente una caccola che quando mi avvicino per trasbordare un tecnico, o le venti buste della cambusa per l’intero equipaggio, lei neanche si ferma. Continua a dragare, tra sbuffi di acqua e di fango, scarti improvvisi, ribollire di eliche di manovra. E se non reagisco in fretta e sfascio qualcosa sono cavoli miei.
Non dovrei, non sono qui per fare il taxi, ma le grandi compagnie internazionali sono efficienti e ciniche fino all’ultimo insignificante dettaglio. Se possono risparmiare venti euro facendomene rischiare ventimila lo fanno senza battere ciglio. E guai a rifiutarsi: finché non avranno pagato, coi loro modi e i loro comodi tempi, avranno loro il coltello dalla parte del manico. Non sono poi così libero come vantavo poco sopra.


Il vero punto non è però questo. Che io sia stanco è una scusa, una giustificazione che cerco di premettere all’ingiustificabile.
Questo sabato era una bella giornata. La mattina c’erano venticinque nodi di Garbino, che da sud ovest si incanalava lungo tutto il porto canale, alzando onde di mezzo metro nei bacini interni, ma c’ero ormai abituato. Con un po’ più di motore e un po’ più di manico si gestiscono manovre e rilievi e ormeggi anche con venticinque nodi.
E il benzinaio me l’aveva detto, venerdì: “Questo lo chiamano il vento dei pazzi, perchè fa uscire di testa le persone. Ma domani cambia, arriva la Bora. E allora sarà davvero brutto.”
Io avevo guardato le previsioni, e i venticinque nodi, con punte a trenta, da nord nord est invece che da sud ovest mi avevano infastidito ma non certo spaventato.
Alle sette di mattina ancora le previsioni: sempre sui tenta nodi di massima. Quindi dopo il mio turno mattutino, infestato dal Garbino, sono tornato in albergo e mi sono addormentato, approfittando delle poche ore a mia disposizione e temendo quello che poi in effetti sarebbe accaduto: il messaggio del mio collega basco, che mi annunciava che i suoi capi volevano una "rapida integrazione" nel pomeriggio.
I suoi capi vogliono sempre rapide integrazioni. Solo che per loro “rapido” è un avverbio che indica quando loro pretendono il risultato, e non ha alcuna proporzione con l’estensione delle aree che noi dobbiamo andare a rilevare per poterglielo fornire.
Il punto più lontano del porto, a cinque miglia abbondanti dal marina dove siamo ormeggiati, e lo vogliono per intero.
Bar, caffé, barca, computer, cavi, motore, collega basco. C'è il sole e i soliti 25 nodi di Garbino: partiamo. Mezz’ora di navigazione controvento e iniziamo a registrare i dati. Devo fare lo slalom tra le navi in ormeggio, schivando la schiuma dei rimorchiatori che le schiacciano ai moli mentre le gomene vengono cazzate a ferro.
A metà rilievo mi rendo improvvisamente conto che il vento è cambiato, ha girato di 180° tondi tondi: ce l‘avremo di prua anche a tornare all’ormeggio. Cel'ha fatta, dunque: è entrata la bora. Ma che sarà mai, venticinque-trenta nodi.... Continuo a fare su e giù per l'area di rilievo.
Passa un’ora, e di lontano, a nord lungo il canale, vedo avanzare un muro di pioggia che pian piano cancella ogni cosa, lasciando alla vista solo un minaccioso sipario grigio. Avverto lo spagnolo, chiudo gli oblò, rizzo le bombole e le altre attrezzature da sub che ho in pozzetto. L’acqua ci raggiunge e completiamo il rilievo sotto la grandine. Però siamo contenti, perché ora possiamo tornare in marina e quindi in albergo, e così facciamo.
Solo che il vento non è più venticinque trenta nodi: è aumentato parecchio, e sta aumentando ancora. Alza onda nel porto, onda corta che comincia a frangere. Devo diminuire la velocità, fare un po’ di zig zag, cercare riparo dietro le grandi navi mercantili ormeggiate ai lati. Ma la bora si incanala perfettamente, ed è impossibile sfuggirle. Proseguo a un nodo e mezzo, con l’elica che ogni tanto esce dall’acqua e il motore che va su di giri. Sono le cinque, rischiamo di arrivare con il buio.
Finito il rettilineo si apre davanti a noi una darsena. Il mare qui ribolle, rigira, si attorciglia. Le onde marroni sommergono la prua. “Andiamo a destra, saremo più protetti” mi fa il collega. Se c’è una cosa che ho imparato, da quando vivo e lavoro in barca, è che in queste situazioni le buone maniere vanno temporaneamente sospese. A terra avrei cercato un compromesso, avrei provato a fare come diceva lui per poi eventualmente giustificarlo mentendo: “Anche a me sembrava così”. Ma in mare no. A destra avrei i bassifondi immediatamente sottovento, mentre a sinistra sarò protetto dalla banchina alta, e dagli impianti della raffineria a terra. Senza neanche rispondere faccio di testa mia e vado a sinistra, e anche se con fatica la darsena passa. Nel rettilineo successivo il mare è meno mosso, tanto che piano piano mi azzardo a riguadagnare il centro del canale e poi, addirittura, ad accelerare. Viaggiamo ora a tre nodi e mezzo. Il marina, il nostro ormeggio sicuro, il nostro letto in albergo, sono sempre più vicini.
Passiamo anche la curva. Passiamo il taghetto, fermo al suo posto incastonato nella banchina. Passiamo la darsena pescherecci e il benzinaio (“NO, non ho intenzione di perdere tempo e rischiare danni per fare benzina, ci penseremo domani”, sono costretto a impormi), e devo spostarmi di nuovo a sinistra, sopravento, perchè sono tornate le raffiche e ho paura mi devino verso il cemento dei moli.
E infine i moli finiscono. Prima quello a nord, quello di sinistra, quello sopravento, per intenderci. Perché cavolo il braccio Nord sia più corto del braccio Sud vorrei tanto che il progettista me lo venisse a spiegare di persona, offrendomi come minimo una cena di pesce accompagnata da champagne per farsi perdonare. Fatto sta che appena fuori dalla protezione del molo, seppure ancora dentro l’avanporto e quindi ancora all’interno della grande diga foranea, inizia la vera fine del mondo.
Le onde che finora si sono arrampicate fino alla mia misera cabina (Non l’ho ancora scritto? Sono su un cabinato di sei metri) erano nulla al confronto. Queste sono alte, ripide, corte, incrociate, frangenti tutte allo stesso tempo. E il vento è TANTO. Altro che trenta nodi. Se vado piano vengo portato inesorabilmente verso il molo sud (quello che il progettista ha previsto più lungo proprio in previsione della bora, immagino), mentre se vado più forte mi infilo letteralmente sotto le onde fangose.
Lo spagnolo finalmente comincia a bestemmiare nella sua lingua, scosso. Anche ora prova a indicarmi la via, che per lui è sempre inspiegabilmente sottovento, e anche ora lo ignoro proseguendo dritto in faccia alle onde, verso il largo, in cerca di acqua per poter accostare, mettermi al giardinetto e sperare di evitare gli spigoli di cemento appena sotto il fanale rosso. Lui con un po’ di ritardo capisce le mie intenzioni e si acquieta, dedicandosi a tenersi dritto con mani e piedi prensili come una scimmia in gabbia che capisce di essere destinata ai leoni.
Riesco a guadagnare a fatica trenta metri, poi cinquanta, poi cento. Mi giro e mi sembra che le onde che prendo ora corrano poi libere fino oltre il fanale, allora approfitto della morfologia improbabile ed effimera prodottasi dall’incrocio delle piramidi di schiuma e accosto a dritta fino a puntare l’entrata del marina. Le onde ci spingono, ora, e l’urlo del vento cala di un tono.
E mi rendo conto che le onde che evitano il fanale rosso e proseguono, banalmente, sono quelle che si schiantano ruggenti sul frangiflutto del marina. E poco più a sinistra, per maggior gloria del Signore degli Oceani, le stesse onde passano direttamente sopra la massicciata del sopraflutto. O meglio: passano senza sforzo dove io ricordo che dovrebbe esserci la massicciata, solo che ora si vedono solo le onde, e la schiuma. Sarà davvero lì, la massicciata? O è più lunga, e quindi finisce più a destra, davanti alla mia prua?
La questione non è di poco conto, perché entrando al marina avrò per un momento più o meno lungo vento e mare al traverso: se punto troppo a sinistra rischio di schiantarmi direttamente sugli scogli, surfando sulle onde. Se punto invece troppo a destra rischio di non avere la protezione del sopraflutto nel momento più delicato, di dare il fianco a un frangente e di essere trascinato da questo contro la scogliera del sottoflutto. Stessa fine, solo una cinquantina di metri sottovento.
Faccio la mia scelta e aumento i giri del motore, cercando di sincronizzarmi con i cavalloni. Arrivo dietro il sopraflutto e accosto al traverso giusto in tempo per essere sollevato da un onda enorme. Lo spagnolo grida temendo la straorza “Gira a destra, tieniti al centro! Tieniti al centro!” Ma al centro già ci siamo, considerando onde, vento e corrente. Il suo di centro, quello geometrico, è quello che il prossimo frangente porta direttamente sugli scogli.
Fortunatamente è un mese che tengo dritta tra le onde dei rimorchiatori questa barca a cui fino a due ore fa non avrei dato un soldo, e anche adesso riesco a ritrovare la stabilità e a riprendere la rotta. Anche gli anni di meltemi aiutano, in questi casi, e l’onda successiva, quella che se mi fossi tenuto al centro ci avrebbe ammazzato, ci solleva, ci solleva, ci solleva e poi ci rideposita esattamente nel mezzo, libero, del canale di ingresso al marina. Ed è l’ultima, per noi oggi: dopo di lei, ridossati dai moli, rimane solo l’ululato rabbioso del vento. “Ci siamo, ce l’abbiamo fatta” continuo a ripetere un po’ per me un po’ per il mio collega, che non essendo al timone impiega più di me a rendersene conto.
Il resto è banale. Come un ormeggio a cinque nodi di velocità può esserlo solo dopo aver rischiato la vita. Siamo salvi. Noi e la barca e i computer. E il multibeam, che da solo vale quanto uno di questi appartamenti vista mare, da cui forse qualcuno ci ha visto pronto a chiamare i soccorsi, o a pubblicare per primo il video shock su internet.
Solo tornato in albergo ho guardato l’aggiornamento meteo, e ho scoperto che appena prima di imbarcarmi c’era stato un deciso peggioramento nelle previsioni. E io non lo avevo controllato. Come non mi ero fidato del benzinaio, che qui è di casa, e come non ero scappato subito appena era cambiato il vento, e non avevo interrotto il rilievo quando avevo visto di lontano il muro d’acqua avanzare.
Un’idiota, miracolato dal timone che non si è bloccato, dal motore che non si è spento, dall’elica che ha evitato cime, reti, rami e tutta la mondezza portata in superficie dal vento e dai dragaggi di queste settimane. Un deficiente, che si è giocato una vita extra che non sapeva di avere da parte e che ora non ha più, ed è qui a raccontarlo per imprimerselo meglio nella memoria, per non ripetere l’errore. Uno stupido che non si è fermato a una qualsiasi banchina protetta a passare la notte al freddo, ma ha continuato fino all’ormeggio anche quando questo ha significato mettere in pericolo lui, la barca, l’attrezzatura, il suo collega.


E a proposito del mio collega, il giorno dopo riparlandone mi ha confessato, candido: “No no: le previsioni io le avevo guardate, davano quarantacinque nodi fissi, ma i miei capi volevano il rilievo, e comunque c’era il sole e io non ci avevo creduto.”


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