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La fuga di Pino


“Il dinghy sta scappando,” sento la mia voce proferire, il tono eccessivamente tranquillizzato dal secondo bicchiere di ouzo Matis di Mitylini. Attorno a me MaLa, Thais e Giuseppe, anche loro in piena degustazione delle bottiglie riportate dal nostro recente viaggio a Lesbo.
Pino, il tenderino, aveva sciolto il nodo con cui il sottoscritto lo aveva costretto alla Duna pochi minuti prima, e complici le raffiche di vento del tardo pomeriggio stava cercando di allontanarsi di soppiatto, in silenzio, timidamente, lento fino ad essere quasi immobile, senza attirare l’attenzione. Probabilmente l’avevo notato solo perché rilassato dal Matis.
Ah, beh, sì. Se ne sta andando, se ne va, se n’è andato, la voce del Responsabile della Sicurezza che alberga nel mio cervello e si alterna ai turni di guardia con il Bevitore di Ouzo suggerisce. Il Bevitore di Ouzo si toglie gli occhiali e si avvicina al bordo della barca per tuffarsi. Hai controllato di non avere il telefono in tasca? ricorda il RdS. Sì, ho controllato. E faccio per buttarmi in acqua, con assoluta controvoglia. Pino è a 20 metri.
“Io volevo comunque farmi il bagno, se vuoi vado io” propone sul più bello Giuseppe, interrompendo il mio slancio. BdO tira un sospiro di sollievo, e finge di non sentire la fastidiosa voce del RdS (Non ti fidare, non ti fidare). Mi risiedo.
Giuseppe però deve cambiarsi, mettersi il costume. Quando finalmente parte al salvataggio, Pino è a 30 metri e, rotti gli indugi, smette di fingere e accelera, ufficialmente in fuga.
Le prime bracciate di Peppe sono possenti, veloci. Esattamente come Pino.
Non ce la farà, stai per perdere il tender nuovo di pacca. Non saprai nemmeno come riportare a terra i tuoi amici: non mi vuole proprio lasciar godere il mio Matis, il Responsabile della Sicurezza.
Prendo le pinne, sputo nella maschera, e scruto Giuseppe, che ora nuota con meno entusiasmo, e Pino. La distanza tra i due mi sembra assolutamente costante.
“Ce la farà? Tu che lo conosci cosa ne pensi?” chiedo a Thais. Perché lanciarmi all’inseguimento, oltre a una grossa rottura di palle, corrisponde anche a dichiarare ufficialmente che non ho fiducia in Giuseppe. Tra maschi Sapiens di fronte a donne della stessa specie può portare a situazioni antipatiche. Ma ancora più antipatico sarebbe lasciar scappare Pino. E poi Giuseppe lo conosco da un’ora scarsa, magari è uno di quei rari Sapiens che non competono perennemente sulla lunghezza vero o presunta del proprio pene.
“Non lo conosco così tanto, non saprei,” la risposta. Nello stesso istante Giuseppe smette di nuotare a stile libero e passa alla rana. Il gommoncino è a 200m buoni da me. Forse 50 da lui. Non ho scuse, non ho scelta: mi tuffo e comincio a nuotare.
Bracciate decise, pinnate potenti. E le mutande che scivolano in basso scoprendomi il culo.
“Devo coprirmi, sono ridicolo” il sensibile e timido Bevitore di Ouzo.
Non hai tempo per coprirti, zitto e nuota, e io obbedisco e nuoto.
Nuoto, nuoto, nuoto. Respiro ogni sei bracciate. Poi ogni quattro. Ogni due. Nuoto nuoto, con l’ouzo che va veloce in circolo e l’alcol che viene bruciato a ritmi esagerati, il rumore delle sinapsi che scoppiano come millebolle nelle mani di un ragazzino ipercinetico. Non penso più, non parlo più. Sono il RdS che spinge un corpo non suo a prestazioni al limite della sincope.
Nuoto, nuoto. Sono nel centro della baia, non vedo più il fondo, sta facendo buio, Pino è ancora lontano, ma forse un po’ meno.
Respiro ogni due bracciate, affannato. Provo a spingere di più con le gambe, ma i muscoli protestano. Provo a tirare di più con le braccia, ma mi manca il fiato.
Pino è diretto sullo spigolo della baia. Una raffica sbagliata, un soffio di corrente maligna, e prenderà il largo verso Lipsì. E, mi rendo conto senza smettere di spingere, io di nuotare indietro fino alla barca non ho le forze: ho passato il punto di non ritorno. Devo recuperare Pino. Accelero ancora, memore delle volate delle piste di atletica, sentendomi come gli opliti di Maratona nella corsa senza ritorno degli ultimi 300 metri, quelli coperti dalle frecce persiane. Cazzo avrei dovuto tirar su l’ancora e inseguirlo con la Duna. Ora rischio anche di affogare nella dolce notte estiva di Patmos. Nuoto.
Alzo di nuovo la vista e mi viene quasi da piangere dalla commozione. Giuseppe è a 50 metri da me, immobile. E dietro di lui Pino. Lo ha catturato! Posso riposarmi, verrà lui a riprendermi! Mioddìo che sollievo, i muscoli che si fermano, si rilassano. E poi una folata di vento cambia la prospettiva: Giuseppe è fermo in mezzo al mare, spossato, rinunciatario, anche lui consapevole che non è possibile tornare a nuoto. E Pino dietro a lui, ancora in fuga.
Di nuovo giù: gambe e braccia, respiro affannato. L’ouzo è evaporato lasciandomi una patina biancastra in bocca. O forse è la schiuma dello sforzo. Nuoto, nuoto, il tender si avvicina. Devo resistere alla tentazione di rallentare, è vicino agli scogli a all’uscita della baia e devo recuperarlo ora.
Nuoto, nuoto, respiro dopo respiro, bracciata dopo bracciata. Da un momento all’altro dovrei vederlo senza alzare la testa fuori dall’acqua, senza rallentare. Anzi, lo vedo, eccolo, alzo il braccio e mi appendo. Ce l’ho!
Mi tiro a bordo a fatica, e giaccio assaporando il mio successo come Filippide in attesa della morte, per lunghi interminabili minuti. Poi mi faccio violenza costringendomi a tirarmi su seduto.
È quasi buio, e miope come una talpa devo tenermi la maschera graduata per vedere qualcosa. È appannata, la sciacquo e mi guardo intorno: le rocce sono a pochi metri, Duna un puntino minuscolo a nord ovest. Giusepppe invece non riesco a vederlo. Troppo lontano, immagino. Certo non posso rischiare di lasciarlo qui, ma se non lo vedo l’unica possibilità è remare indietro, prima o poi lo incontrerò.
Remo, e ogni dieci vogate mi fermo e mi giro a cercare nel mare che si fa sempre più nero. Remo, remo, scruto, e infine un grido mozzato sulla mia sinistra: eccolo. Lo raggiungo a fatica, lui sale a bordo e si stende come me pochi minuti prima, la schiena appoggiata allo specchio di poppa. Riesce perfino a mormorare uno “Scusa, pensavo di farcela” a cui io ripondo con un sincero “Lascia perdere, senza pinne questi cosi vanno via troppo veloci, nelle raffiche” memore anche che il tutto parte da un nodo fatto male da me medesimo. Fatto dal Futuro Bevitore di Ouzo, specifica il Responsabile della Sicurezza, ancora in carica nell’assenza totale del primo.
E quindi remo, remo, respirando ed espirando a ritmo. Remo controvento, controvoglia, con la barca sempre lontana nella sera e Giuseppe che con un cenno spossato della mano, ogni tanto, mi indica come correggere la rotta.
Remo, remo, questo ritorno in tender è ancora più lungo dell’andata a nuoto. E il cuore batte ancora più forte, e i polmoni cercano ancora più aria. Remo, remo, e ogni volta che mi giro Duna sembra oltre le mie possibilità.
“Ora che arriviamo ci danno una bicicletta, così completiamo la gara” riesco a scherzare, ma siamo troppo stanchi perfino per ridere.
Con il fiato corto, la bocca secca, i polmoni affamati, il cervello un’unica crudele macchina il cui unico scopo è costringere i muscoli a lavorare oltre lo sfinimento, riesco dopo un tempo infinito ad avvicinarmi alla poppa della Duna. Giuseppe scende, io lego Pino con un nodo in più, agganciando anche il corrente avanzato nella bitta. Poi rimango ancora sulla panca, a prendere fiato e a sputare bava schiumosa.
Infine risalgo a bordo. La cena è pronta e la tavola apparecchiata: carpaccio di tonno appena pescato, spezzatino dello stesso animale, olive, formaggio fresco. E tanto, tanto ouzo.
A questo punto il Responsabile della Sicurezza, novello Cincinnato, prova a tirarsi indietro richiamando alla coscienza il Bevitore.
Hey, è il tuo momento. Ho sistemato tutto e sarei anche un pochino stanco, alla serata pensaci tu.
Ma il Bevitore di Ouzo non risponde. Sfinito forse dalla vergogna, forse dallo stress, o forse consumato come fonte energetica di emergenza negli spasmi estremi del recupero.
E niente: è toccato al Responsabile della Sicurezza ubriacarsi.

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