Premessa: nessuno si è fatto male, nessun danno registrato. Mi sono ritrovato a fare l’equilibrista tra le prue di due barche, tra cui la mia, a dare ordini in inglese misto a greco, a sbrogliare ancore e catene, e me la sono cavato in dieci minuti scarsi. Niente di nuovo, niente di eccezionale. A parte che non sono nel porto di Lipsì, e nemmeno a Poros e nemmeno a Egina. Non sono in porto: sono in baia.
A Kolona siamo arrivati ieri sera, sul tardi, troppo tardi per i miei gusti. Nonostante questo, però, abbiamo avuto tempo e luce a sufficienza per scandagliare il tratto di baia libero, quello dietro a tutti, verso la chiesetta, e di scegliere una buona chiazza di sabbia per calare l’ancora. L’idea era, ed è, è rimanere fuori dal casino quando, stasera, il vento girerà di 180 gradi e tutti ruoteranno sulle proprie ancore.
Qui dietro, vuoi per i fondali risicati - fortunatamente in tanti pensano che 3-4 metri lo siano - vuoi per l’effetto pecora - se non c’è nessuno vuol dire che il lupo nero s’incazza e ti mangia se ti ci metti tu - siamo rimasti soli. C’è una “prateria” sconfinata lungo tutto il tombolo e poi dietro, a sud, verso le rocce. Quasi una baia nella baia. Che rimane ancora oggi deserta e dimenticata anche con il costante e regolare arrivo dei charteristi vomitati ieri pomeriggio da Lavrio. Catamarani, ovvio. Perché ormai se non hai un catamarano di non è Grecia. E il 42 è da poveri.
Eppure, quando arriva il primo gommone domenicale, tra tutti gli ettari liberi di baia il tipo sceglie di calare la sua Bruce proprio sulla mia stessa chiazza di sabbia. Un paio di metri a sinistra della mia Delta, giudico a vista.
Non contento, indietreggia di una decina di metri, sempre alla mia sinistra, incurante della direzione del vento, e cala un’ancora anche a poppa. Poi spegne i motori e, senza mai aver guardato nella mia direzione, accende la musica. Gli amici si tuffano, la tipa si appecora per togliersi prima i pantaloncini da sopra il costume, e poi il costume dalle chiappe, fanno foto. A cinque metri dalla mia prua.
Pigramente osservo gli eventi, rimandando mentalmente il momento in cui mi infilerò la muta e andrò a farmi una pescata di là dall’isolotto. Non dico nulla, perché in efffetti il vento è poco, e loro sono quasi interamente di gomma. E poi non voglio annoiare Daniele, che mi accompagna da più di una settimana in questo viaggio di ritorno dal Dodecaneso al Saronico, con le mie lamentele da anziano paranoico con manie territoriali NOMA***.
Spero, in silenzio, non mi tirino via l’ancora, per non dover accendere il motore e rifare manovra, ma in fin dei conti abbiamo tutta una giornata di attesa prima della traversata di domattina, e niente da fare. A parte ora scrivere, intendo.
Quando i metri diventano tre il tipo e la tipa continuano a mostrarci il culo agitato a ritmo di musicaccia da spiaggia internazionale, che per carità, ha sempre il suo perché - il culo intendo. Io cerco di scattare qualche foto che renda l’idea del deserto attorno a noi e dell’assurda vicinanza cui il gommista (lo chiamo così per rispetto con quelli che il gommone lo sanno usare davvero) gratuitamente ci costringe. Salgo anche sull’albero. E mentre sono su all’altezza delle crocette i metri diventano due, poi uno... fino a che, casualmente, ops! la portatrice sana di culo si volta, prende coscienza della nostra sorprendente esistenza, e richiama l’attenzione del portatore sano di gommone. Forse è solo infastidita dalle macchie di ruggine sul mio musone, ormai all’altezza dei suoi occhiali da sole griffati. Colpa della catena turca farlocca la cui zincatura è evaporata in due anni di utilizzo: in effetti danno fastidio a molti, in foto.
Il gommista fa quello che farebbe chiunque non abbia idea di come gestire la cazzata dove si è infilato (del resto se sai gestirla, di solito, sai anche come non infilartici): accende il motore prima del cervello e cerca freneticamente di allontanarsi in retro. Io nel frattempo scendo e mi avvicino al luogo dello scontro per ammansirlo. Non lo insulto neanche, gli faccio anzi i complimenti per la scelta dell’ancoraggio. Lui non risponde, non sorride, non chiede scusa, non mostra imbarazzo: insiste solo nel cercare di andarsene dopo aver tirato su con l’ancora di poppa un cespuglio di posidonia abbastanza folto da sfamare un banco di salpe per un mese. Ma non se ne può andare.
Perchè, scopro tra il divertito e lo spallato, la sua Bruce ha agganciato la mia catena. Ettari ed ettari di mare libero, e questo glabro, bianchiccio e sprovveduto ragazzo greco, cui la sorte e il papà hanno messo in mano un gommone di otto metri con 450 cavalli distribuiti su due fuoribordo, sei amici e una ragazza che finalmente vedo di faccia mentre la ascolto chiedere piagnucolosa “Ti kanume tora?”, è riuscito nella improbabile impresa di agganciare la mia catena. Se ci avesse provato apposta, dubito avrebbe avuto successo.
Perché il gommista, oltre a pretendere di ancorare a dieci metri da me nonostante centinaia di metri liberi di baia altrettanto bella, oltre a scegliere la mia stessa chiazza di sabbia, oltre a non vedere, su tre metri e mezzo di acqua, la mia Delta giallo canarino con tanto di sugherino rosso a mezzo metro dal diamante, oltre a indietreggiare sul calumo non seguendo il vento perché, se l’avesse seguito, mi sarebbe venuto addosso subito, oltre a calare la seconda ancora a poppa bloccando la sua ruota e impedendo la mia, aveva tirato giù a dir tanto cinque metri di catena, contati dal musone.
E poi quando fai il NOMA ti danno dell’anziano paranoico.
***“Not On My Anchor”, coniato da me medesimo un paio d'ore fa. Ma il mondo è grande e non ho googlato, magari non mi sono inventato nulla.
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