“Se ce l'avevo io, quer fisico, 'e donne le rovinavo”, mi prende in giro passando lento l'operaio del cantiere, con quell'accento cantilenante che caratterizza i pochi civitavecchiesi veraci rimasti qui in darsena vecchia.
Sono ormeggiato all'inglese alla antica banchina in pietra, più o meno dove deve aver accostato Goran Schildt subito dopo la guerra - magari Luciano è un discendente diretto di uno di quelli che gli passarono le cime alle bitte – e in effetti non mi sento particolarmente aggraziato mentre mi muovo qua e là per la coperta, a torso nudo, sistemandola nella concitazione dell'ultimo momento: sto per partire!
Il vento ha finalmente girato a maestrale, è una settimana che aspetto, ed è un mese che racconto a tutti del mio progetto di viaggio. Probabilmente sono diventato uno dei personaggi che classicamente non mancano mai in un pontile, lo skipper che vanta di continuo partenze che non arrivano mai. Un problema al verricello, uno alla luce in testa d'albero, poi il meteo avverso, poi manca un pezzo importante che deve arrivare, un amico da salutare... e per noi accorati paranoici il sorriso di chi passa, che si fa sempre più aperto, ormai non è solo di simpatia ma anche di scherno.
E poi sono un Peris, la tigna “ce l'avemo ner sangue”, per cui sì, il vento è rinforzato, ma è dalla direzione giusta, e poi ormai ho salutato tutti: s'ha da andare.
Così m'ingegno per lasciare la banchina con le raffiche che cercano di spingermi verso lo scalo di alaggio a farmi fare la fine dei vecchi rimorchiatori, tirati su col grosso argano che a guardar bene è ancora lì tra le lamiere di scarto e i secchi di vernice. Mollo a prua, tengo a doppino la poppa. Marcia avanti, timone scontrato, marcia indietro e mi scosto verso il centro del bacino. Raffica, e la barca torna dov'era prima, solo un po' più vicino al pericolo. Motore deciso: indietro, avanti, indietro... Piano piano la poppa prende la direzione voluta, la cima si allunga e alla fine devo mollarla, finisce in acqua. Un'ultima smotorata all'indietro per mantenerla a galla con l'abbrivio, poi lascio il timone e la tiro su a larghe bracciate come mi consigliava Francesco per la scotta del genoa, in virata. Solo che le sue braccia son tronchi muscolosi, mentre le mie rovinano le donne solo per scherzo, e la scena vista da fuori potrebbe forse sembrare la versione nautica di una gag di Laurel and Hardy. Tra la comica e il gesto tecnico il confine è sottile, ma ben definito: la cima è a bordo, la poppa è in rotta, ho ancora abbrivio e sono di nuovo al timone. Un successo. Mi permetto anche una telefonata, nel caso qualcuno possa ancora avere il (legittimo) dubbio si sia trattato soltanto di culo.
La telefonata ha effetto, e all'uscita dalla darsena ho il piacere di salutare agitando il cappello il parentame che sventola scialli dalla terrazza a picco sul porto. Ed è voltando le spalle a questa scena d'altri tempi che do gas, mi lascio i ruderi del Lazzaretto sulla dritta e accosto la prua al vento. Solo.
Il vento... un maestrale deciso che solleva onda corta in porto. Contro cui il motore al minimo non basta. Vado avanti, sfilando accanto a enormi navi da crociera. Maggiordomi e pensionati mi guardano dall'alto, qualcuno mi indica, mi sento parte del folklore, ho un ruolo, devo rispettarlo: vado avanti.
Il mare monta. Arrivato all'altezza della banchina 26, quella dove costruiscono i cassoni di cemento che poi rimorchiano e affondano a prolungare il porto, quella i cui fondali ho rilevato e cartografato svariate volte in una mia vita precedente, il nuovo antemurale è a fior d'acqua – qualcuno si è accorto che c'è del marcio a Civitavecchia e ha messo i sigilli al cantiere – e il vento entra pieno. Un metro buono d'onda mi accoglie, confusa dai riflessi sulle banchine interne. Decido che non è il caso di alzare la randa in porto come previsto, troppo folle lasciare il timone ed andare all'albero senza spazio di manovra, ed esco in mare aperto di forza, smotorando tra gli spruzzi, non senza essermi peritato di guadagnare - faticosamente - al vento rispetto alla testa semisommersa del molo di soprafflutto.
Sono fuori, accosto a sinistra, ora le onde sono al lasco e non spazzano più la coperta. Certo, la barca tenta di partire in straorza anche a secco di vele, ma lo sapevo che le condizioni erano queste. Lo sapevo? Boh, sì... In ogni caso ora lo so, e in un attimo prendo una decisione geniale: solo fiocco. Cazzo il paterazzo, cazzo l'amantiglio, la scotta di randa, controllo che l'autopilota faccia il suo lavoro lasciandolo governare attraverso un treno di onde particolarmente cattivo, e vado a prua a sganciare la vela dalle draglie. La tiro su dal pozzetto e lei si gonfia, si tende, Duna balza in avanti e io posso spegnere il motore, un'ora esatta dopo averlo acceso in banchina.
Finalmente in mare.
Sono ormeggiato all'inglese alla antica banchina in pietra, più o meno dove deve aver accostato Goran Schildt subito dopo la guerra - magari Luciano è un discendente diretto di uno di quelli che gli passarono le cime alle bitte – e in effetti non mi sento particolarmente aggraziato mentre mi muovo qua e là per la coperta, a torso nudo, sistemandola nella concitazione dell'ultimo momento: sto per partire!
Il vento ha finalmente girato a maestrale, è una settimana che aspetto, ed è un mese che racconto a tutti del mio progetto di viaggio. Probabilmente sono diventato uno dei personaggi che classicamente non mancano mai in un pontile, lo skipper che vanta di continuo partenze che non arrivano mai. Un problema al verricello, uno alla luce in testa d'albero, poi il meteo avverso, poi manca un pezzo importante che deve arrivare, un amico da salutare... e per noi accorati paranoici il sorriso di chi passa, che si fa sempre più aperto, ormai non è solo di simpatia ma anche di scherno.
E poi sono un Peris, la tigna “ce l'avemo ner sangue”, per cui sì, il vento è rinforzato, ma è dalla direzione giusta, e poi ormai ho salutato tutti: s'ha da andare.
Così m'ingegno per lasciare la banchina con le raffiche che cercano di spingermi verso lo scalo di alaggio a farmi fare la fine dei vecchi rimorchiatori, tirati su col grosso argano che a guardar bene è ancora lì tra le lamiere di scarto e i secchi di vernice. Mollo a prua, tengo a doppino la poppa. Marcia avanti, timone scontrato, marcia indietro e mi scosto verso il centro del bacino. Raffica, e la barca torna dov'era prima, solo un po' più vicino al pericolo. Motore deciso: indietro, avanti, indietro... Piano piano la poppa prende la direzione voluta, la cima si allunga e alla fine devo mollarla, finisce in acqua. Un'ultima smotorata all'indietro per mantenerla a galla con l'abbrivio, poi lascio il timone e la tiro su a larghe bracciate come mi consigliava Francesco per la scotta del genoa, in virata. Solo che le sue braccia son tronchi muscolosi, mentre le mie rovinano le donne solo per scherzo, e la scena vista da fuori potrebbe forse sembrare la versione nautica di una gag di Laurel and Hardy. Tra la comica e il gesto tecnico il confine è sottile, ma ben definito: la cima è a bordo, la poppa è in rotta, ho ancora abbrivio e sono di nuovo al timone. Un successo. Mi permetto anche una telefonata, nel caso qualcuno possa ancora avere il (legittimo) dubbio si sia trattato soltanto di culo.
La telefonata ha effetto, e all'uscita dalla darsena ho il piacere di salutare agitando il cappello il parentame che sventola scialli dalla terrazza a picco sul porto. Ed è voltando le spalle a questa scena d'altri tempi che do gas, mi lascio i ruderi del Lazzaretto sulla dritta e accosto la prua al vento. Solo.
Il vento... un maestrale deciso che solleva onda corta in porto. Contro cui il motore al minimo non basta. Vado avanti, sfilando accanto a enormi navi da crociera. Maggiordomi e pensionati mi guardano dall'alto, qualcuno mi indica, mi sento parte del folklore, ho un ruolo, devo rispettarlo: vado avanti.
Il mare monta. Arrivato all'altezza della banchina 26, quella dove costruiscono i cassoni di cemento che poi rimorchiano e affondano a prolungare il porto, quella i cui fondali ho rilevato e cartografato svariate volte in una mia vita precedente, il nuovo antemurale è a fior d'acqua – qualcuno si è accorto che c'è del marcio a Civitavecchia e ha messo i sigilli al cantiere – e il vento entra pieno. Un metro buono d'onda mi accoglie, confusa dai riflessi sulle banchine interne. Decido che non è il caso di alzare la randa in porto come previsto, troppo folle lasciare il timone ed andare all'albero senza spazio di manovra, ed esco in mare aperto di forza, smotorando tra gli spruzzi, non senza essermi peritato di guadagnare - faticosamente - al vento rispetto alla testa semisommersa del molo di soprafflutto.
Sono fuori, accosto a sinistra, ora le onde sono al lasco e non spazzano più la coperta. Certo, la barca tenta di partire in straorza anche a secco di vele, ma lo sapevo che le condizioni erano queste. Lo sapevo? Boh, sì... In ogni caso ora lo so, e in un attimo prendo una decisione geniale: solo fiocco. Cazzo il paterazzo, cazzo l'amantiglio, la scotta di randa, controllo che l'autopilota faccia il suo lavoro lasciandolo governare attraverso un treno di onde particolarmente cattivo, e vado a prua a sganciare la vela dalle draglie. La tiro su dal pozzetto e lei si gonfia, si tende, Duna balza in avanti e io posso spegnere il motore, un'ora esatta dopo averlo acceso in banchina.
Finalmente in mare.
fair winds, myfriend!! e, tra un acazzata e una lascata, ...... non smettere di scrivere cosa combini: ci fai sognare!!! :-)
RispondiEliminaCarlo, il Moitessieur de no' antri! mitico
RispondiElimina:-)
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