Passa ai contenuti principali

Mamma li Turchi

Si presenta col suo motoscafo nel tardo pomeriggio davanti alla banchina superaffollata di Myrina, e punta uno spazio largo poco più di due metri. Vuole infilarsi tra un charterista turco targato Delaware e il Greco che fa uscite giornaliere con la sua barca a vela. Alle proteste di quest'ultimo, il Turco a motore fa uscire in coperta i due figlioletti biondi e prorompe in un appello angosciato: "non hai figli, tu?"
Senza aspettare risposta butta giù l'àncora e accelera, affondando la sua poppa quadrata nel sinuoso mascone delle due barche a vela.
Sulla plancetta di poppa la moglie (che vista da qui fa un figurone, ma a detta del Triestino ormeggiato più in là è completamente rifatta), in un completino attillato da spiaggia, sorride sicura della superiorità della sua gens dietro i suoi grandi occhi ornati di trucco pesante.
Ovviamente lo spazio non c'è, ma il Turco non demorde, e continuando a esibire i figli come prova e stimolo della sua innocente ostinazione smotora aprendosi un varco attraverso parabordi e murate.
Il Greco è fuori di sé. Il charterista targato Delaware, invece, si mostra gentile e pieno di buona volontà. Ora che ci penso, questo atteggiamento apparentemente generoso e sprezzante del pericolo, potrebbe in parte derivare dal particolare che, essendo appunto un charterista, la barca non è la sua?

Noi siamo invece arrivati diverse ore fa, e già allora la banchina sembrava al completo. Avevamo accostato alla barca del Triestino il quale, fingendo simpaticamente di non parlare italiano, ci aveva spiegato che no, lo spazio alla sua dritta era riservato alla barca a vela delle uscite giornaliere, e alla sua sinistra accostava "alongside" il barcone turistico: informazioni confermate dai tavolini, le sedie e gli ombrelloni sotto cui gli skipper delle relative imbarcazioni concludevano i loro affari prima di imbarcare i clienti. C'era però uno spazio, più in là, da dove era appena uscito un 50 piedi, per cui io dovevo entrarci per forza. E me lo indica.

Un motor yacht di 20 metri in acciaio da una parte, un 14 metri a vela leccatissimo dall'altra, 3 metri poco abbondanti al centro. Noi siamo larghi appunto 3 metri poco abbondanti, il 50 piedi forse era stato tale "prima" di entrare lì, forse dopo esserne uscito, ma non vedevo come potesse esserlo rimasto durante la permanenza. La cosa non mi convinceva affatto, e avrei rinunciato in partenza se non fosse che la sosta a Aegina di un paio di settimane fa mi aveva insegnato che i posti in banchina possono essere creati dal nulla anche laddove sembra impossibile. Quindi mi sono avvicinato per studiare la situazione, ho attirato l'attenzione del marinaio dello yacht il quale, a gesti, mi ha fatto capire che per quanto lo riguardava potevo fare un po' quel che mi pareva (il motivo me l'ha spiegato dopo: "this is iron", battendo sulla murata), e che anzi dovevo provare. E così ho provato. Mezz'ora di manovra, incastrato dai parabordi prossimi a scoppiare, col Triestino palesatosi italiano anche se filoimperiale ("stavamo meglio prima che veniste a liberarci", mi farà il giorno dopo, il che magari è anche vero, ma ne andasse a protestare coi Savoia) che mi suggeriva pedante dalla banchina: "hai il timone scontrato, per questo non vai indietro", e io che mi mordevo la lingua per non perder tempo in una saccente lezione di idrodinamica applicata alla manovra a motore, dato che trovavo maggiormente utile trattare con Antoni, il marinaio di cui ho già accennato, l'abbassamento lungo le mie murate dei suoi parabordi sferici che da soli occupavano metà dello spazio disponibile e che mi impedivano di indietreggirare anche di un solo centimetro. Spento il motore, altri 20 minuti per sistemare a regola d'arte i parabordi verso i velisti di sinistra, anche loro italiani cispadani, nella speranza di fare amicizia, al loro ritorno, invece che scambiare schiaffi.
Ma questa è un'altra storia, come è un'altra storia che, nel proseguo, ho scoperto che con il marinaio greco c'era più affinità che coi velisti leccati di Verona. Forse perché nemmeno Antoniindossa guantini scamosciati per sciogliere le cime di ormeggio. Mioddìo quanto mi sento acido stasera, fatemi spazio e lasciatemi sfogare.

Torniamo al Turco, che nel frattempo è arrivato di forza in una banchina ormai affollata di curiosi attirati dalle urla del Greco e sue, di rimando. Ha un sorriso bianchissimo, si è rifatto i denti, ovvio. La moglie è ancora a poppa, e con presenza statuaria tiene le cime di ormeggio appena sotto i seni sodi, pronta a porgerle al primo offerente. E invece accade una cosa che non avevo mai visto prima qui in Grecia: nessuno si fa avanti. Lei è lì, a mezzo metro dalla banchina, che offre le cime con quelle sue belle spalle curate certo in palestre alla moda e costosi centri estetici, e i pescatori, i marinai, i modesti passanti: nessuno accenna un passo, un gesto. La Comunità di Limnos ha emesso il verdetto: il Turco è uno stronzo e non va aiutato.

Io sono lì, un po' discosto, accanto ad Antoni che osserva con disprezzo. Istintivamente mi adeguo alla decisione di Limnos. Dentro di me circola una vaga reminescenza del mio, di ormeggio, poche ore prima, ancora più lungo e ancora più azzardato, a cui però avevano partecipato tutti: chi suggerendo, chi spingendo, chi tirando, chi mollando un pochino la sua cima per fare spazio. La Banchina accoglie tutti, ma non tutti nello stesso modo.
Ad Antoni, curioso, chiedo chi, a parte la prepotenza, abbia ragione. Non ha dubbi: il Greco paga la concessione per avere quell'ormeggio a disposizione a qualsiasi ora, esce continuamente e non può permettersi di non avere lo spazio per accostare a caricare i clienti. Al suo posto avrebbe chiamato la polizia portuale. Il Turco è uno stronzo, conclude, ma non sono tutti così. E mi indica una barca dietro la sua, anche lei con la mezza luna in campo rosso a poppa, il cui proprietario ha evidentemente la sua stima.
Nel frattempo il Turco stronzo, o forse lo Stronzo turco, non si è perso d'animo, e strappate le cime di mano alla moglie ha pigiato il telecomando che allunga a dismisura l'erezione della sua lucida passerella, per poter poi agevolmente invadere la banchina. Dopo lo sbarco dà volta alle cime ignorando gli insulti del vicino così come l'avo Saraceno (la fortuna è cieca, si sa) sprezzava il dardo nemico nella foga dell'arrembaggio.  Altro particolare: mentre tutti i Greci in banchina lo guardano muti, a braccia incrociate, ostili, i Turchi delle barche accanto, compresi quelli che Antoni stima, si fanno ora avanti ad aiutarlo, manifestando coi fatti una muta, inquietante solidarietà. 
È così che scoppiano le guerre, faccio in tempo a pensare: per difendere gli Stronzi in nome della fraternità tribale. 

Poi arriva davvero la polizia, chiamata dal Greco, e si porta via il Turco mentre questo protesta a voce alta, chiamando ancora una volta in causa i figli, e la moglie impettita intrattiene educatatamente i connazionali di pari ceto sociale chiamati a presidiare il confine che divide la Limnos greca dalla testa di ponte ottomana. 

È così che scoppiano le guerre, osservo ancora, con voluto distacco: inizio ad avere nausea della situazione, l'arroganza tracima oltre il confine e si spande anche in suolo greco. L'arroganza scorre talmente potente nelle vene del tardo discendente del Barbarossa che questi torna gongolante: anche in Capitaneria l'ha avuta vinta lui. La folla si disperde, a testa china, sconfitta, e lui, soddisfatto ma non domo, si dirige alla colonnina dell'acqua, prende il primo tubo che gli capita sottomano, apre il rubinetto e comincia a inondare il suo motoscafo di acqua potabile. 
Peccato che il tubo, e l'acqua, fosse del Triestino nostalgico dell'Impero, la cui moglie austriaca fremente di indignazione non aspettava altro che un casus belli per intervenire…
Ecco, questo è stato forse l'unico, vero errore, oggi, di cui il Turco serberà ricordo.

Commenti

  1. Se c'è una cosa che non sopporto sono i prepotenti, e quelli che mancano di "fratellanza" per mare; sommando le due cose io sarei prima sbottato con il Triestino e poi con il Turco, certe cose mi fanno perdere le staffe!

    RispondiElimina

Posta un commento

Post popolari in questo blog

Improbabilità infinita

La Heart of Gold si stava avvicinando al punto cruciale del suo viaggio interstellare. Di lì a pochi minuti sarebbe stata risucchiata dalla forza di gravità e sparata a tutta velocità attraverso il canale centrale della nebulosa fino allo spazio libero, vuoto e sicuro che la separava dalla sua destinazione finale. Aveva poco tempo, perché il flusso gravitazionale, ora favorevole, si sarebbe invertito in meno di un’ora. Ai comandi, Arthur scrutava con attenzione le orbite degli asteroidi più vicini, quando Trillian esclamò proccupata: “C’è un oggetto in rapido avvicinamento dietro di noi”. Il computer anticipò le loro intenzioni proiettando sullo schermo principale l’immagine di un’astronave tozza, sgraziata, grigia. “Arthur: è un’astronave Vogon!” “Sì, ma non stanno certo cercando noi...” “Invece si avvicinano, mi sembra facciano segnali…” “Stanno aprendo un portello… Dio quanto sono brutti!” “Cosa vorranno? Non recitarci una poesia, spero” “Se dovessero solo minacciarlo,

Intermezzo tecnico

"Il tuo fiocco piccolo andrà benissimo per quando Lui arriverà",  mi diceva premuroso Nicola. "Ti invidio la tua trinchetta", la gentile Francesca. E noi con il fiocco piccolo e due mani alla randa, ancora spaventati per la sventolata presa tra capo e collo a Kea, ad aspettare Lui. Vedendo gli altri intorno a me veleggiare incuranti con tutta la tela a riva, sorridevo tra me e me, li consideravo stolti, celando l'invidia segreta per le loro vele avvolgibili - il garroccio è una scelta di vita di cui andare orgoglioso, soprattutto quando i soldi per il rollafiocco non li hai - finendo in entrambi i casi col compatirli perché prima o poi sarebbe arrivato Lui, e avrebbe fatto piazza pulita di tutti coloro che Gli mancavano di rispetto prendendola con tanta allegria. Quanto ero serio, io, e quanto mi sentivo figo con il mio fazzoletto ingarrocciato, che mi spingeva a quattro nodi quando il vento sparava la schiuma via dalle onde e mi costringeva a smotorare q

Guido io vorrei

Tranquil Bay, una sera di settembre. Per tutto il giorno ho consultato siti meteo, divaricato compassi su carte nautiche stampate in casa, scritto a matita note su miglia, gradi bussola, ore di partenze e relativi arrivi. Sto rientrando in Italia, e il maltempo unito alla vastità dello Ionio mi tengono in ansia, talmente in ansia che si fa strada in me l'ipotesi, suffragata e anzi giustificata dalle previsioni ad oggi disponibili, di tagliare direttamente da Paxos allo Stretto di Messina senza nessuna tappa intermedia. Tanto per togliermi il dente e passare oltre.  Ora, sgomberato in parte il tavolo della dinette, mi dedico al problema alimentazione. La cena prevede frittata di zucchine e torta locale all'arancio, annaffiati da vino rosso della cooperativa Robola di Cefalonia. Soffriggo le zucchine con uno spicchio d'aglio, sbatto due uova con un po' di latte, aggiungo un cucchiaio di yogurt e, all'ultimo momento, colto da ispirazione, sostituisco il parm