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Iddio si manifesta in modo misterioso, e ironico.

Post del 2022, che tra le righe spiega perché sono scappato dal Saronico e da luoghi similmente frequentati (ormai quasi tutti, a dire la verità) e ho smesso di pubbicare racconti in cui l'ironia fa sempre più fatica a far da contrappeso alla stizza.

L’ho già detto che il Saronico è pieno?
A Egina sono arrivato alle 12:30 di un mercoledì. In banchina principale nemmeno un posto. Rimaneva solo, sul molo lontano, quello di angolo. Un po’ esposto, soprattutto alle onde dei traghetti, ma col vantaggio che nessuno può fisicamente ormeggiarsi sopravvento a te, alla tua sinistra, in mezzo al nulla dell’assenza di banchina.

Alla mia destra un catamarano noleggiato da greci. I greci che noleggiano catamarani non sono migliori dei russi che noleggiano catamarani. Tanto che mi hanno osservato dal pozzetto mentre da solo scendevo a terra a passare le cime di ormeggio nelle bitte senza che neanche per un secondo un moto marinaro interiore li facesse minimamente dubitare che avrebbero anche potuto fare due passi e venire a prendermele. Pace, per carità, me la cavo bene da solo. Evidentemente la cultura marinara è un mito inventato da noi, per noi, e cucita addosso al paese che ci ospita per giustificare un benessere dovuto invece al sole, al mare e al locale liquore all’anice.
Il catamarano dopo un’oretta è partito, senza salutare. La differenza nel nostro conto in banca deve essere sembrata loro evidente, talmente evidente da renderci trasparenti in entrata come in uscita. Sono arrivati, in loro sostituzione, un mucchio di charteristi facenti capo alla flottiglia Sunsails. Un ragazzo dalla banchina dava indicazioni via radio, e loro pian pianino, aiutati da un gommone di appoggio, venivano in banchina. Con ordine, educazione, e discreta capacità. Oltretutto con barche di dimensioni umane, dai 33 ai 35 piedi, a ulteriore conferma che chi sa fare non ha bisogno di strafare.
Ci siamo salutati, presentati, abbiamo sistemato insieme i rispettivi parabordi. Gente normale, di cui sei costretto a ricordarti solo perché il “normale” è straordinario, in questo fine stagione nel Saronico.
Con tutti i vicini sistemati mi sono sentito abbastanza al sicuro da andare a fare un giro. Ho accolto MaLa che finalmente torna in traghetto da Atene insieme ai genitori. Abbiamo mangiato qualcosa, siamo tornati alla barca.
E scopro che non c’è più alcuna frontiera a separare il possibile dall’impossibile: un charter ha preteso di ormeggiare alla mia sinistra, con ancora a prua, cima sottovento sulla mia stessa bitta e cima sopravento... Dove? Da nessuna parte, perché sopravento c’è solo il canale di accesso al porto. Sono io, la sua cima sopravento. Ho 12 metri di Doufour con tanto di luci al led in falchetta, ovviamente deserto - figurati che qualcuno è rimasto a bordo a sincerarsi di quel che succede - schiacciato contro il mio fianco sinistro dal vento in aumento. E, a mia volta, sto schiacciando il 35 piedi degli Inglesi alla mia destra.
Sono sinceramente combattuto tra la rabbia per l’evidente mancanza di rispetto e l’ammirazione per la fantasia - e la mancanza di scrupoli - con cui lo skipper ha assicurato la sera in porto ai suoi amici/ospiti. A fatica, anche perché non c’è altro da fare ormai, propendo per l’ammirazione, abbasso un poco i miei parabordi che, casualmente, erano gli unici a sopportare tutto il peso dell’invadente invasore, fino all’altezza degli oblò della sua fiancata, e vado a dormire. Tanto il vento non è tanto, considero: a parte il rumore dei parabordi sulla vetroresina, che farà dormire a merda tanto noi quanto loro, non c’è niente di pericoloso.
E invece tempo mezz’ora e il vento aumenta, e con lui il rumore. Esco in pozzetto attirato dalle voci: i vicini, tutti biondi vestiti di lino chiaro, sono a tavola e sorseggiano mollemente vino bianco tra risate di circostanza emesse senza aprire troppo la bocca, dovesse smettere la faccia di assomigliare perfettamente a un culo. La loro barca sta cominciando a saltare su e giù con l’ondina che ormai entra dall’imboccatura, ma loro non se ne curano. Rimango lì a guardarli con odio, cercando di concentrare lo sguardo per bruciargli il cervello, o quantomeno scaldargli il vino, ma loro sono talmente rapidi nel berlo che quando la temperatura comincia ad aumentare la bottiglia è già vuota. E anche col cervello ottengo simile risultato.
Mentre sono lì, fumante di rabbia, mi sento chiamare dalla barca inglese. Stanno sistemando altri parabordi, e mi chiedono aiuto coi miei. Mi calmo, sposto i miei per farli lavorare meglio, scambio due chiacchiere con loro, li aiuto a bagnare di sapone quelli troppo rumorosi, torno a dormire. Invano: sono dentro una centrifuga.
Tempo un altra mezz’ora e i linovestiti finalmente si rendono conto che la situazione sta diventando pericolosa. Duna infatti ha un bel bottazzo in teak, abbastanza consumato da far emergere la testa delle viti inox, venti centimetri più basso della coperta. Quel che non ha potuto l’educazione ha potuto il portafogli, e nel constatare che ormai le barche balzano qua e là con salti di mezzo metro buono - l’onda entra decisa, ora - perfino la bottiglia vuota del loro cranio ha capito che se se non alleggeriscono in qualche modo la mia murata finiranno per ripagare alla società di noleggio tutta la fiancata del Doufour.
E niente: hanno spostato di venti centimetri la loro unica cima, hanno cazzato a ferro il calumo (gliel’ho dovuto suggerire io, a loro piaceva moscio), hanno aggiunto e sistemato parabordi, hanno provato a scostarsi a mano facendo forza ovviamente sui miei candelieri e ricevendo da me indicazioni su come spingere sulle sartie miste a minacce di morte nel caso non vi si fossero attenuti. E hanno passato la notte svegli, con una torcia da metronotte puntata sul mio baglio massimo, a controllare di non sbreccare sul mio provvidenziale bottazzo la loro preziosa villetta sul mare.
Se un dio esiste, ha un ben misterioso e ironico modo di manifestarsi, ho pensato nello scivolare finalmente nel sonno del giusto.

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