Ieri pomeriggio tirava un bel vento da nord ovest. Col pandino di Giuseppe abbiamo attraversato tutta l'isola, siamo scesi sul versante nord e, sfidando la forza di gravità e la coesione del terreno, siamo arrivati praticamente su due ruote davanti alla scogliera da cui avremmo dovuto immergerci. Io guardavo con preoccupazione il mare schiumoso. Il mio amico mi aveva spiegato che quando c'è onda è più comune trovare pesce. "Almeno qui a Oinoussa" aveva aggiunto, per fedeltà al metodo scientifico.
Ma l'idea di infilarmi là in mezzo e andare a nuotare proprio nei frangenti a pochi metri dagli scogli non mi trovava molto entusiasta.
Fortunatamente anche Giuseppe si sentiva un po' pigro. "Sì può fare, ma per te sarebbe molto scomodo, e anche io di andarmene a 500 metri dalla costa fino alla secca che ti dicevo stamattina, con questo mare non è che ho tutta questa voglia."
E così siamo rimontato in macchina e siamo tornati indietro, sempre su due ruote per evitare di rimanere coinvolti nella frana definitiva che cancellerà di qui alla fine dell'inverno quella stradina, di un paio di chilometri. Ci siamo fermati proprio davanti allo stretto attraverso il quale neanche una settimana fa Duna faceva il suo ingresso nell'arcipelago. La nostra zona di pesca sarebbe stata quella sulla riva opposta: la scogliera battuta dalle onde (più basse) per me, una secca in mare aperto (più vicina alla costa) per lui.
Giuseppe è un uomo dal multiforme ingegno, e tra le varie specialità in cui eccelle annovera sicuramente la pesca subacquea. E in più è entusiasta di condividere la sua esperienza e le sue conoscenze con chi si dimostri interessato. Tipo io, che mi immergo senza prendere un pesce da quando ero un pischello in maglione di lana (che protegge dal freddo, un poco, ma infinitamente meno di una muta) al seguito dello zio strafigo. In effetti è anche da quando ero un pischello in maglione di lana al seguito dello zio strafigo che mi caco sotto dal freddo, in acqua. Anche questa potrebbe essere una chiave di lettura.
Comunque sia, Giuseppe è ancora più figo di mio zio, e mi introduce a quella che sarà la prima pesca della mia nuova vita subacquea con un rigore scientifico che forse neanche si rende conto quanto io apprezzi.
Invano. Perché - spoiling - nemmeno oggi prenderò niente. L'acqua è torbida per la corrente (quella sbagliata per i dentici, commenta lui), le onde frangono vicino agli scogli e non mi fanno sentire sicuro. Arrivo sul fondo lentamente seguendo i suoi consigli e mi aggrappo alle rocce. In effetti, immobile, riesco a star sotto molto più del solito. E in effetti dopo qualche secondo mi rendo conto di essere diventato, per il mondo subacquo intorno a me, una delle tante rocce. Pesci prima nascosti saltano fuori dalle tane e mi girano attorno, come piccioni sulla statua di Garibaldi. E ogni tanto qualcuno passa anche davanti alla punta del mio fucile. Ma l'unico che avrei potuto colpire, un bel cefalo apparentemente di 50cm, e quindi lungo forse la metà, mi ha guardato con uno sguardo talmente languido che non ho avuto cuore di premere il grilletto e spappolargli le carni.
Ma questo è successo dopo.
Perché durante il viaggio di andata ad attraversare il canale verso la zona di pesca, a un certo punto abbiamo notato qualcosa di bianco uscire da sotto una roccia. Io, di mio, sarei passato oltre dopo averlo classificato come un "boh bianco", ma Giuseppe mi ha richiamato indietro, mi ha fatto posizionare meglio, e allora ho visto.
La roccia era in realtà uno strato di arenaria che formava un tetto, una sorta di riparo, profondo poco più di un metro. Nel riparo, la cosa bianca si allargava, si allungava fino ad arrivare a un paio di pinne e a un mantello grigio scuro sui lati. Era una foca monaca.
"Sarà morta" ha ipotizzato Giuseppe. Che poi, curioso, si è immerso - saranno stati 4 metri - si è acquattato piatto dietro uno scoglio e, con la punta del fucile, è arrivato a toccare la coda della bestia.
Questa si è stirata pigramente, ha rivolto uno sguardo sdegnato al rompipalle che aveva osato svegliarla, uno ancora più schifata a me, rimasto con il fiato sospeso nonostante fossi in superficie, e con le sue ridicole pinnette ha spinto lentamente via il suo corpo possente. Il maggiordomo sovrappeso, baffuto e dallo sguardo insolente è sparito dopo pochi metri in mezzo alla nebbia portata dalla corrente e illuminata dal sole.
Ecco, già solo questo è bastato a fare di me il pescatore più fortunato del mondo.
Ieri sera abbiamo cenato a casa di Giuseppe con il pesce che lui - ovviamente - aveva catturato. Noi, di nostro, abbiamo messo l'ouzo artigianale preso a Plomari. Tutto sommato uno scambio proficuo per entrambi. Poi, abbiamo salutato lui, il suo protetto a quattro zampe Malakismeno ed Eleni della taverna.
Stamattina siamo partiti, in parte perché comincia il nostro mal digerito ritorno, in parte per toglierci di mezzo prima dell'arrivo della prossima perturbazione da sud, che promette vento, tuoni e fulmini di qui a tre giorni.
Il canale tra Chios e la Turchia è pieno di sole, e il vento da nord è ancora gentile a questa ora della mattina. MaLa è di sotto in versione pasticcera, io scremo le foto di ieri, controllo che il genoa non si incaramelli allo strallo, do un'occhiata alla traina. Ecco, dritto verso la traina sta arrivando un gommone. Da forma e dimensioni mi pare tanto qualcosa di militare.
Tiro su la lenza prima di causare un incidente diplomatico e i poliziotti si accorgono del pericolo e girano attorno per arrivare a noi, gentilmente, sottovento.
Le domande di rito me le fa un ragazzone roscio con la barba da vichingo. Chiede consiglio a un militare bruno di capelli, carnagione e umore mentre, ai comandi, una ragazza castana dalle guance piene di efelidi è concentratissima nel non toccare Duna nemmeno per sbaglio. Sono svedesi dell'operazione Frontex, con un militare della coast guard di Chios a coordinare.
Salgono a bordo per chiederci i documenti, guardano perfino nell'armadio. Sono professionali, pignoli, ma con una tranquilla gentilezza che non mi fa rimpiangere i controlli in mare subiti "altrove".
Il Vichingo è interessato a Duna, e mi chiede modello e cantiere. Chiacchiero anche con la ragazza al timone, che mi racconta che il gommone è arrivato con un camion, e loro sono qui per un turno di sette mesi.
"Bello!" commento
E lei si guarda intorno, quasi imbarazzata di questo mare blu e di questo sole caldo nonostante l'autunno, e la gioia le illumina il viso.
"Sì," risponde ridendo.
Immagino che per un guardiacoste scandinavo saltare l'inverno artico e venire su un'isola greca a pattugliare il mediterraneo orientale per sette mesi sia quasi una vacanza premio, come vincere un terno al lotto. E, simpatici come si dimostrano, sono sinceramente contento per loro.
E anche per noi. Scendiamo nel vento fresco verso la prossima baia riparata. Il sole è ancora alto, faremo in tempo a dare ancora prima del tramonto. Forse, addirittura, potrò andare in cerca di un'altra foca monaca. Abbiamo acqua, cibo, ouzo. La canna in acqua, la vela a riva, e Duna che corre a cinque nodi.
È banale concludere affermando che siamo assolutamente, fortemente, felicemente vivi?
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