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Caraibi - 1 di 3

Meditazioni sulla recente esperienza ai tropici.

Breve premessa: ho cominciato a scrivere questo post convinto di cavarmela facilmente. Ma un mese, mi rendo conto ora, lascia il segno, e va raccontato per bene. Questo per spiegare il motivo che mi a spinto a dividere le seguenti riflessioni in tre parti, sì da dare il lettore la possibiltà di scapparne più agevolmente.




La prima cosa che colpisce, sbarcati nella sera setosa di Fort de France, è il caldo. Veniamo dal gennaio europeo, quello con la tramontana che ghiaccia le orecchie, quello del naso dolorante dal freddo. E qui, a 14° di latitudine nord, la stessa stagione offre l'accoglienza di un'estate egea. Come se avessimo traversato sei mesi in una notte.
La seconda cosa che colpisce, e poi la smetto di numerarle, è che all'estate ci si assuefà in un attimo. Ancora in aeroporto mi infilo in bagno e mi spoglio. Riemergo senza canottiera di lana, senza maglione, senza scarpe alte sulle caviglie. Camicetta aperta sul petto, jeans e ciabatte: come se fossi sbarcato ieri da Duna, tra le palme turche di Kas, e le sciarpe di lana tirate fin sugli occhi, il cappello calcato fino al collo, i termosifoni caldi cui ci siamo stretti durante il cenone di Natale fossero solo un sogno da assaporare nel dormiveglia per poi dimenticare in fretta. E in fretta l'inverno viene dimenticato, non sembra più strano ciappolare in cappello di paglia e occhiali da sole lungo le strade polverose che costeggiano il golfo, né mollemente cercare una chiazza d'ombra, tra il bar e gli uffici del porto, dove assaporare la brezza costante che gli alisei spingono attorno all'isola e giù dalle colline, fino al mare.
Il sole acceca, i suoi raggi come saette scagliate a perpendicolo, dalle sei alle diciotto. Poi il tramonto arriva rapido, e ancora più rapido il buio. E con il buio strani rumori che fatichiamo a catalogare: cigolii, lamiere che sbattono, tonfi regolari. "C'è qualcuno che spinge un'altalena proprio fuori dalla finestra!" mi avverte MaLa, allarmata, faticando a prendere sonno nel Bed&Breakfast dove dormiamo la prima notte. "Sono le rane" ci risponde prosaica Emilie, il mattino successivo. 

Al mattino le rane tacciono, lasciando il palcoscenico agli uccelli. Dai più timidi, i colibrì, che si mostrano solo nei boschi riparati dell'interno, ai più sfrontati, i black boys, che entrano in dinette dalle finestre aperte per rosicchiare il pane secco rimasto dalla colazione e cacare sulla mia maglietta pulita.  
E poi quelli di mare: pellicani, cormorani, fregate. E quella specie di gabbiani, che gabbiani non sono, che seguono la barca nelle sue risalite verso nord per approfittare del volo dei pesci impauriti dallo schianto della prua sull'onda: volteggiano, si lasciano cadere rapidi e riemergono - quando sono fortunati - con la preda nel gozzo. E poi su di nuovo: una vita dinamica, la loro. Dinamica almeno quanto quella dei pesci volanti, del resto, perennemente cacciati dai dorado, in acqua, e dagli uccellli in aria. Immagino che, tra una fuga e l'altra, dedichino parecchio tempo a riprodursi, perché sono talmente tanti che a volte abbiamo l'impressione di navigare galleggiando non sull'acqua ma sulle loro diafane ali. 
I dorado stessi, i maki maki come li chiamano qui, li vediamo solo a terra, trasportati a spalla dai pescatori locali da un ristorante all'altro fino a trovare un compratore. Il mare aperto è pieno di sargassi in questo periodo e pescare alla traina frustrante: le alghe galleggianti si impigliano continuamente nell'amo e ci costringono a recuperi talmente frequenti da farci passare, a volte, la voglia. Quando i sargassi sono più radi peschiamo, ma solo barracuda. Qui pare si possano mangiare, quelli piccoli almeno, mentre più a nord, sopra Dominica, la ciguatera rende velenosi loro come la maggior parte degli altri pesci. Il sapore e la consistenza ricordano il baccalà, e impanati e fritti fanno molto Trastevere, ma senza carciofi. Abbocca anche qualcosa che trancia di netto il cavo di acciaio che fa da terminale per l'esca artificiale: ovviamente non saprei dire cos'era. Per fortuna.
Gli altri pesci commestibili sono il marlin, lo squalo e il red snapper. Almeno, questo è quanto ci viene proposto in ogni ristorante, taverna o chiosco. A volte ce lo propongono anche in mare, uscendo dai golfi con delle barchette che, in aperta sfida ad Archimede, galleggiano fino a incrociarci per proporci l'affare. Da Bequia in giù ci vengono proposte anche aragoste. Ce le mostrano vive, già di lontano, e ce le fanno poi scegliere tra quelle saltellanti sul pagliolato. Oppure ci invitano a terra dove su enormi griglie ne arrostiscono ogni sera a centinaia servendole poi insieme a riso, verza e banane fritte a noi turisti, seduti forchetta in resta su tavolacci di legno piazzati sulla sabbia a pochi metri dal mare, sotto il cielo stellato e le palme.

Commenti

  1. Grazie Carlo x il tuo blog! Scrivi in modo simpatico e scorrevole. In più mi sento in parte coinvolto nel tuo racconto. Un abbracvio. Norberto il "quasi" pizzaiolo.

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    1. Prego, carissimo. Ci vediamo tra pochissimo a Cuba, sperando di trovare lievito di birra e farina tra gli scaffali dei supermercati di Cienfuegos!

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