Arrivo al porto sul tardi, e invece di filare subito in barca allungo il percorso fino all'officina per vedere se trovo il Meccanico. Lo incontro mentre fruga in un aiuola. Cerca il caprifoglio per i pappagalli - dice - ma quei bastardi hanno tagliato tutto. Immaginando si riferisca ai giardinieri mi limito ad annuire con aria complice. "Il carrello te lo riporto ora o domani?"
Ora è meglio, pare, così corro in barca, torno ad indossare i panni intrisi del gasolio di ieri, sbarco il carrellino che aveva passato la notte attaccato alle draglie e me lo trascino dietro per restituirlo al suo proprietario.
Appena in tempo per aiutare a sistemare l'officina, liberandola dai cartoni, dalla segatura, da taniche di liquidi innominabili ottenuti dal miscelamento di gasolio, benzina, acqua morchia ed olio: tutti residui delle mie lavorazioni sul mio motore.
Ora è meglio, pare, così corro in barca, torno ad indossare i panni intrisi del gasolio di ieri, sbarco il carrellino che aveva passato la notte attaccato alle draglie e me lo trascino dietro per restituirlo al suo proprietario.
"Come va, l'hai sistemato?" mi fa il Meccanico col suo accento genovese.
Io ripenso a ieri: reimbarcato il motore con l'aiuto di un amico d'infanzia che non frequento da anni, sistemato sui supporti con l'aiuto di un amico, un altro, che lavora qui in porto, ero poi rimasto solo e avevo deciso di ricollegare il parastrappi - la mia linea d'asse non è rigida - al mancione dell'elica. Inutile dire che dopo un'intera giornata passata a tonneggiarmi avanti e indietro dalla banchina, valutare distanze, carichi e rischi, tirare e spingere,
infilarmi nel vano motore passando dalla cabina di prua e rimanere sdraiato sui gomiti e le ginocchia per alcune ore non era un'occupazione particolarmente gradita. Il rifiuto dei bulloni di avvitarsi al loro posto, pertanto, mi aveva alquanto contrariato. Il parastrappi infatti è (ora lo so) leggermente più largo del giunto triangolare che dovrebbe collegarlo all'asse, cosicché il primo bullone entra facilmente, ma gli altri due finiscono per sbattere sul metallo, o per avvitarsi di sbieco consumando la preziosa filettatura in ottone del mancione. Lì per lì, stanco mentalmente forse più ancora che fisicamente, e deluso perché avevo creduto di aver ormai superato la fase critica, avevo attaccato il problema in maniera fisica, violenta nei modi e nelle parole. Con una mano avevo premuto per deformare l'anello in gomma rinforzata, con l'altra avevo cercato di avvitare ora un bullone, ora l'altro. I perni comprati nuovi in ferramenta erano risultati troppo lunghi di alcuni millimetri, ma solo dopo essere riuscito per un'unica volta a montarli. Ero entrato in un circolo vizioso in cui premevo, giravo, strizzavo, bestemmiavo, ruotavo tutto l'accrocco di 120 gradi, ricominciavo da capo. Ero andato a letto stremato, sconfitto, mi ero addormentato a fatica, mi ero risvegliato con gli occhi gonfi e i muscoli doloranti per l'acido lattico. Andando in ufficio, dopo il primo caffè della giornata, l'illuminazione: impossibile continuare a mano, come ieri, avrei dovuto deformare artificialmente il giunto. Con una chiave inglese o una tavoletta legata a un cimino, o, ancora meglio, con uno di quei grossi ganci regolabili da falegname... come si chiamavano?
infilarmi nel vano motore passando dalla cabina di prua e rimanere sdraiato sui gomiti e le ginocchia per alcune ore non era un'occupazione particolarmente gradita. Il rifiuto dei bulloni di avvitarsi al loro posto, pertanto, mi aveva alquanto contrariato. Il parastrappi infatti è (ora lo so) leggermente più largo del giunto triangolare che dovrebbe collegarlo all'asse, cosicché il primo bullone entra facilmente, ma gli altri due finiscono per sbattere sul metallo, o per avvitarsi di sbieco consumando la preziosa filettatura in ottone del mancione. Lì per lì, stanco mentalmente forse più ancora che fisicamente, e deluso perché avevo creduto di aver ormai superato la fase critica, avevo attaccato il problema in maniera fisica, violenta nei modi e nelle parole. Con una mano avevo premuto per deformare l'anello in gomma rinforzata, con l'altra avevo cercato di avvitare ora un bullone, ora l'altro. I perni comprati nuovi in ferramenta erano risultati troppo lunghi di alcuni millimetri, ma solo dopo essere riuscito per un'unica volta a montarli. Ero entrato in un circolo vizioso in cui premevo, giravo, strizzavo, bestemmiavo, ruotavo tutto l'accrocco di 120 gradi, ricominciavo da capo. Ero andato a letto stremato, sconfitto, mi ero addormentato a fatica, mi ero risvegliato con gli occhi gonfi e i muscoli doloranti per l'acido lattico. Andando in ufficio, dopo il primo caffè della giornata, l'illuminazione: impossibile continuare a mano, come ieri, avrei dovuto deformare artificialmente il giunto. Con una chiave inglese o una tavoletta legata a un cimino, o, ancora meglio, con uno di quei grossi ganci regolabili da falegname... come si chiamavano?
Il Meccanico dunque mi chiede come è andata, e io gli racconto sinteticamente che il motore è a posto, i supporti anteriori ok, quelli posteriori da regolare, e ho difficoltà a collegare l'asse perché mi serve qualcosa per stringere la gomma del giunto fino a far coincidere i buchi. Mentre comincio a descrivergli cosa ho in mente lui mi indica uno sportello sotto il banco da lavoro "prendi un sergente, stanno lì sotto, scegliti quello della misura giusta". Apro ed eccolo lì, il grosso gancio regolabile da falegname, o meglio il sergente.
Ne scelgo due, non sono sicuro della misura, offro un caffè al Meccanico qui al bar del porto, lo saluto e torno alla barca.
Apro la cabina di poppa, mi infilo col busto nel vano motore, poggio le ginocchia sulle bottiglie di plastica vuote che ho sistemato sul pavimento della sentina nella speranza di salvare i menischi, stringo il sergente sul parastrappi all'altezza del primo bullone da avvitare, lo avvito, passo al successivo...

In dieci minuti di orologio l'homo sapiens che a volte è in me risolve quello che il neanderthalensis aveva affrontato ieri, con coraggio e ostinazione, per un intero pomeriggio, finendo ottusamente sconfitto. E tutto grazie ad un ozioso ragionamento sviluppato guidando lentamente la macchina da Riva di Traiano a Civitavecchia centro, un paio di chilometri al massimo.
A volte dà soddisfazione essere Sapiens.
Commenti
Posta un commento