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Ricordando l'estate – Inverno 2012

Ma sono davvero stato io?
Eravamo noi appena sei mesi fa, in maglietta di cotone e cappello di lana, costume slabbrato e guanti da vela da due lire? Eravamo io e Manuela quelli spinti dal vento per quattordici ore al giorno?
Mi sembra così improbabile ormai che quei ricordi siano davvero miei. Avrei più facilità a credere di averli sognati, o di aver letto in un romanzo di avventura il racconto dei sogni di qualcun altro.
O forse è adesso che sto sognando, di essere su un divano nell'inverno di Roma, mentre là fuori l'Atlantico scorre e scorre, e scorre, lungo le bianche murate della Duna.

Nel mio sogno meno probabile fuori c'è la neve. Ne è caduta tanta negli ultimi giorni, e altra è prevista a breve. È un inverno tosto, il clima sta cambiando e, quello che è peggio, gli alberi di Roma non sono "botanicamente adatti" a sostenerlo. Almeno questo sarebbe il motivo, secondo il nostro sindaco, per il quale i rami crollati ostruiscono le strade come un tempo fecero le barricate della Repubblica. Sì, deve essere un sogno.

Ma appena sei mesi fa...
Era fine luglio. Le ultime provviste venivano stivate con cura dietro gli sportelli della dinette. L'acqua minerale occupava già tutto il gavone di prua. Parola d'ordine: autarchia!
Sul più bello il serbatoio dell'acqua aveva rivelato una perdita abilmente celata da anni sotto il teak della seduta di dritta. Da lì decine e decine di litri di liquido erano periodicamente tracimati in sentina, nel corso del tempo, con conseguente puntuale panico da falla e da relativa tragedia imminente. La ferramenta del porto era ovviamente fornita della colla adatta a riparare il danno, ed aveva accettato di vendermela per un costo strettamente proporzionale alla mia fretta di partire. Che era molta.

Ora Prevista Partenza 0700. Così scrivevamo sulla carta nautica, accanto alla nostra rotta immaginaria, negli esercizi di carteggio ai tempi dell'esame per la patente. Un'era geologica addietro, quando sembrava così scontato che tutto avesse ormai imboccato la via giusta, quella in discesa. Patente nautica, barca a vela, magari domani una casa nostra, o addirittura un figlio...
L'Ora Prevista Partenza, OPP per gli iniziati, non coincide MAI con l'ora effettiva in cui si riesce, più per tigna che per reale possibilità, a mollare gli ormeggi: dovrebbe essere riportato in nota in tutti i testi per la nautica da diporto. Il procedimento lungo e se si vuole affascinante del calcolare una rotta, infatti, deve molto alla OPP. Da essa derivano naturalmente tutti i passaggi orari della navigazione. E da qui un'altra verità che andrebbe assolutamente rivelata agli aspiranti "croceristi de noantri" perché lo tengano ben presente nelle loro ottimistiche programmazioni: l'Ora Prevista di Arrivo - la famosa ETA in lingua anglosassone - non ha alcuna utilità pratica ai fini della navigazione.
I testi di carteggio dovrebbero recitare: "si stabilisca l'OPP, si misuri la lunghezza della rotta, la si divida per la velocità prevista ottenendo il tempo T di percorrenza. L'ora di arrivo reale all'ancoraggio notturno sarà 2T ore dopo il mezzodì o T ore dopo il tramonto, ritenendo più probabile la situazione che possa creare più disagio."

L'ora della nostra Partenza, quel giorno estivo, scivolò lentamente verso il primo pomeriggio. Giannutri la prima tappa della nostra ottimistica programmazione. Giannutri, piccola deliziosa isola ben isolata al largo del Giglio, ci era sembrata la meta ideale per quel primo giorno del lungo viaggio che ci eravamo prefissi. Giannutri sembrava scivolare lentamente verso Nord, allontanandosi da noi e dalle nostre possibilità, durante quel pomeriggio in cui i venti annunciati non si presentarono - o forse eravamo noi in ritardo - mettendoci di fronte ad un'altra fondamentale rivelazione: la velocità prevista sarà immancabilmente maggiore di quella che sarete in grado di ottenere, in relazione inversamente proporzionale al tempo che le vostre ferie o le condizioni atmosferiche o l'approssimarsi del buio vi lasciano per raggiungere la vostra meta.
Giannutri, splendida isola cantata e decantata su tutti i pontili del medio Tirreno: chi l'ha mai vista? Noi, sei mesi fa, sicuramente no. Per quanto ne so, per quante volte ho programmato di far sosta nelle sue acque e le sono al massimo passato accanto, per quante volte l'ho vista bassa e scura nella foschia viola del tramonto navigando di fretta tra lei e la costa toscana, Giannutri potrebbe essere lo sfondo in cartongesso dipinto da un romantico scenografo come quinta di una commedia nazional popolare, di quelle in cui il popolo italiano viene ancora accostato a santi, poeti e navigatori.
L'idea iniziale mal celava la mia convinzione di aver compreso le letture invernali sulla metereologia costiera, e si basava sull'assunto che la costa bassa a Nord di Tarquinia fino su all'Argentario passando da Montalto avrebbe col suo riscaldamento innescato una brezza di mare termica. Niente rotta diretta, quindi: per raggiungere la nostra prima tappa avremmo risalito la costa di bolina larga, puntando poi decisamente verso Giannutri solo quando l'avremmo avuta al traverso. L'astuto progetto arrivava a prevedere una virata per il bordo finale con mura a dritta, stringendo il maestrale pomeridiano.
L'unico maestrale che stringemmo quel primo giorno fu quello serale, che si alzò per poche ore ad increspare il grigio del mare al crepuscolo. Avevamo perso ore a bordeggiare in un'aria immobile, aiutandoci con il motore a tratti ma con parsimonia, temendo di tradire quell'orgoglio velista sfoggiato ansiosamente da chi velista vorrebbe tanto essere ma sotto sotto non è.
Vedendo il sole tuffarsi dietro il Giglio, e Giannutri ancora nascosta dall'orizzonte o forse dalla foschia, non ci rimase che accettare la sconfitta e puntare decisi verso la Feniglia. Lungo quella vasta distesa sabbiosa ero vagamente sicuro di poter dare ancora anche al buio, a differenza di quanto sarebbe capitato in una minuscola cala rocciosa, sconosciuta ed inospitale per via degli alti fondali fino a breve distanza dalla costa.

Perché il mare di notte risveglia tutte le nostre paure ancestrali. Quelle che dimentichiamo nelle nostre strade illuminate, negli appartamenti difesi da cancellate e porte blindate - ma a due passi sicuri dalla farmacia e dal supermercato, quelle che teniamo a distanza quando entrati in auto col semplice gesto di chiudere una portiera escludiamo il mondo esterno, un attimo prima di metterci in viaggio nella nostra bolla sterile dal punto A al punto B. Quelle che deleghiamo ad altri quando voliamo su un aereo scattando foto dal finestrino o, in treno, dormiamo cullati dal leggero dondolare del vagone.

Il mare di notte è l'isolamento nell'inutilità dei sensi. Gli occhi non vedono altro che la barca, ombra grigiastra nel nero che la circonda. Ma già fuori dal pozzetto, lungo la tuga fino all'albero ed oltre, i dettagli sfumano nel buio. Sul pulpito di prua i bagliori laterali delle luci di via si riflettono rossi e verdi sui tubi di acciaio lucidato, indicando il punto preciso in cui il mondo conosciuto finisce. A poppa il coronamento illumina un mare in bianco e nero, sul quale la schiuma della scia svanisce dopo pochi metri come oltrepassando un denso muro di tenebra. La fioca luce della bussola indica una rotta da seguire, ma non certo gli ostacoli pronti ad incontrarla e per lasciarci consolare dai freddi suggerimenti dell'ecoscandaglio dobbiamo prima aver superato il timore irrazionale che viene dalla consapevolezza di galleggiare in mezzo al nulla protetti solo da un fragile guscio, spinti da un vento che non possiamo prevedere verso qualcosa che non vedremo fino a quando non saremo arrivati a toccarlo. Di notte ti accorgi che i suoni del tuo mondo confinato soffocano qualsiasi altro rumore. Le vele che sbattono, il cigolio dei bozzelli, l'ululato, che mai vorresti sentire, delle sartie sopravvento durante la burrasca, il ticchettio del winch che cazza la scotta del genoa. O il monotono borbottio del motore. La barca è l'unico oggetto a portata di orecchio a ergersi ad ostacolo per il suono. Puoi sentire il vento, ma solo perché ti sta colpendo in questo preciso istante. Puoi ascoltare l'onda, ma solo perché si è appena infranta contro la tua murata.
Navigare di notte è un esercizio di fine stabilità mentale. Già di giorno, appena ci allontaniamo dalla costa quel tanto che basta a risvegliare le prime inquietudini, è la mente che deve accettare, recuperando un certo fatalismo accantonato dai tempi dell'estinzione delle tigri dai denti a sciabola, che la natura è più potente di noi, e non è tenuta a manifestarsi in maniera per noi prevedibile. Non ci odia e non ci ama; nella sua indifferenza, non distingue tra noi e un delfino, un gabbiano, un oloturia. Lascia a noi la scelta, e la responsabilità, di respirare aria o acqua, di camminare, nuotare, galleggiare o, anche, affondare e annaspare sul fondo. Non fa differenza tra un corpo vivo e un oggetto inanimato.

La Feniglia, quindi. Prua a nord-ovest, e vele sventate nel maestrale che precede sbuffando l'estremo tuffo del sole. Imbrogliati fiocco e randa, forzammo il motore per arrivare all'ancoraggio prescelto prima di notte. Vana speranza. L'ancora fece testa con le stelle già splendenti nel cielo estivo. Era tardi, avevamo passato le ultime ore a scrutare nel buio alla ricerca dei pericoli della costa, e in noi l'eccitazione della partenza veniva diluita dalla consapevolezza di aver già accumulato 6 ore e 30 miglia di ritardo in appena un giorno di navigazione.

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