Il sole è alto nel cielo, quando accostiamo decisamente a SSE nel canale tra Calasetta e Carloforte. Il vento è teso, accelerato forse dal passaggio tra le due isole. Proseguiamo al lasco in un mare nervoso.
L'uscita dal porto è stata rocambolesca. Ormeggiato col vento al giardinetto di sinistra, decido inizialmente di assecondarlo accostando a dritta, per poi uscire in retromarcia. Tutto bene sulla carta, ma nella realtà sottostimo lo scarroccio - forse scottato dalle brutte esperienze passate con la barca da lavoro a motore, in alluminio e con un bel fly bridge - e l'effetto evolutivo dell'elica destrorsa: sono timoroso e ingrano la retromarcia in anticipo. Prima di avere manovrabilità mi sono avvicinato troppo alla barca alla mia sinistra e finisco col timone sulla sua cima di ormeggio. C'è da dire che le cime di ormeggio, qua a Calasetta, vengono giù quasi parallele al pelo dell'acqua, lasciando libero un esiguo passaggio di pochi metri, al centro del canale. In ogni caso mi sono fermato con la pala del timone sul cavo del vicino, il motore in folle per non fare danni, ho pazientato fino a quando il vento non mi ha riportato di fronte all'ormeggio dal quale ero uscito, e ho scelto le maniere forti, ruotando a forza la barca su se stessa a colpi di marcia avanti e marcia indietro, il timone scontrato a dritta.
A parte la fumata bianca più adatta ad un'elezione papale che ad una manovra in porto (il motore è quello che è, ma funziona e me lo tengo) il risultato è raggiunto.
I vicini, quelli di dritta - la barca a sinistra era incustodita - non hanno commentato. Il loro sguardo, ieri vagamente strafottente mentre fissavano senza salutare la nostra barca vecchietta e accroccata, era impegnato altrove. Stamane sul presto, infatti, uno dei maschi beta ha fatto il pieno d'acqua infilando la manichetta nel buco sbagliato. Vacanza finita, immagino. E forse, a giudicare dalle urla che ne sono seguite, anche l'amicizia col maschio alfa.
Siamo quindi usciti da quello che chiamare porto è esagerato: niente rivendita di carburante, niente accessori nautici, liti in banchina per acqua e corrente elettrica - pochi allacci e noi gli unici tra i diportisti ad avere riduttori e prolunghe.
Siamo riposati ma non troppo: negli ultimi giorni il vento è stato un pelino oltre il piacevole, i ridossi pochi e mal segnalati, la navigazione in prossimità di scogli e secche. Certo, le secche del canale di San Pietro non danno fastidio a una barca con appena 2 metri di pescaggio, ma risulta difficile accettarlo emotivamente mentre navighi appena sopra le rocce, bianche nel nero dell'acqua attorno, con l'impressione di poterle quasi toccare appena immergendo il piede, il mare mosso, a tratti frangente. E due giorni dopo esser finiti per idiozia su uno scoglio sommerso.
Stiamo navigando con la randa terzarolata, la mano è ancora quella presa ieri, in attesa di valutare il vento all'esterno per decidere che vela alzare a prua . Appena in rotta salto su pimpante ad ingarrocciare il fiocco grande (tecnicamente il fiocco uno) e ritorno in pozzetto per alare la drizza. Mi sento parecchio sportivo stamattina, e scendo dalla tuga con un agile balzo. La barca lo prevede, è più lesta di me e, in controtempo, scoda quel tanto che basta per farmi atterrare con lo stinco destro sul carrello della randa. La testa della vite di acciaio dello stopper penetra fino all'osso, con un buco netto. Il sangue quasi non c'è: se non fosse per un grumo di tessuto interno, di quelli che mai dovrebbero vedere la luce del sole, che fa capolino come un paguro, e per il dolore che comincia a salire, sembrerebbe quasi non sia successo niente.
Ovvio la colpa è la mia, non si salta in barca. Ma il motivo per cui non mi lamento è soprattutto un altro. Lo so che è stata lei a colpirmi: erano giorni che aspettava il momento per farmi capire come ci si sente ad urtare qualcosa di duro e stabile e invincibile. Anche se il danno esterno sembra trascurabile, si è improvvisamente e definitivamente violati. E fa male dentro. Così, dopo questo scambio di cortesie, io e la mia barca siamo ancora più intimi.
L'uscita dal porto è stata rocambolesca. Ormeggiato col vento al giardinetto di sinistra, decido inizialmente di assecondarlo accostando a dritta, per poi uscire in retromarcia. Tutto bene sulla carta, ma nella realtà sottostimo lo scarroccio - forse scottato dalle brutte esperienze passate con la barca da lavoro a motore, in alluminio e con un bel fly bridge - e l'effetto evolutivo dell'elica destrorsa: sono timoroso e ingrano la retromarcia in anticipo. Prima di avere manovrabilità mi sono avvicinato troppo alla barca alla mia sinistra e finisco col timone sulla sua cima di ormeggio. C'è da dire che le cime di ormeggio, qua a Calasetta, vengono giù quasi parallele al pelo dell'acqua, lasciando libero un esiguo passaggio di pochi metri, al centro del canale. In ogni caso mi sono fermato con la pala del timone sul cavo del vicino, il motore in folle per non fare danni, ho pazientato fino a quando il vento non mi ha riportato di fronte all'ormeggio dal quale ero uscito, e ho scelto le maniere forti, ruotando a forza la barca su se stessa a colpi di marcia avanti e marcia indietro, il timone scontrato a dritta.
A parte la fumata bianca più adatta ad un'elezione papale che ad una manovra in porto (il motore è quello che è, ma funziona e me lo tengo) il risultato è raggiunto.
I vicini, quelli di dritta - la barca a sinistra era incustodita - non hanno commentato. Il loro sguardo, ieri vagamente strafottente mentre fissavano senza salutare la nostra barca vecchietta e accroccata, era impegnato altrove. Stamane sul presto, infatti, uno dei maschi beta ha fatto il pieno d'acqua infilando la manichetta nel buco sbagliato. Vacanza finita, immagino. E forse, a giudicare dalle urla che ne sono seguite, anche l'amicizia col maschio alfa.
Siamo quindi usciti da quello che chiamare porto è esagerato: niente rivendita di carburante, niente accessori nautici, liti in banchina per acqua e corrente elettrica - pochi allacci e noi gli unici tra i diportisti ad avere riduttori e prolunghe.
Siamo riposati ma non troppo: negli ultimi giorni il vento è stato un pelino oltre il piacevole, i ridossi pochi e mal segnalati, la navigazione in prossimità di scogli e secche. Certo, le secche del canale di San Pietro non danno fastidio a una barca con appena 2 metri di pescaggio, ma risulta difficile accettarlo emotivamente mentre navighi appena sopra le rocce, bianche nel nero dell'acqua attorno, con l'impressione di poterle quasi toccare appena immergendo il piede, il mare mosso, a tratti frangente. E due giorni dopo esser finiti per idiozia su uno scoglio sommerso.
Stiamo navigando con la randa terzarolata, la mano è ancora quella presa ieri, in attesa di valutare il vento all'esterno per decidere che vela alzare a prua . Appena in rotta salto su pimpante ad ingarrocciare il fiocco grande (tecnicamente il fiocco uno) e ritorno in pozzetto per alare la drizza. Mi sento parecchio sportivo stamattina, e scendo dalla tuga con un agile balzo. La barca lo prevede, è più lesta di me e, in controtempo, scoda quel tanto che basta per farmi atterrare con lo stinco destro sul carrello della randa. La testa della vite di acciaio dello stopper penetra fino all'osso, con un buco netto. Il sangue quasi non c'è: se non fosse per un grumo di tessuto interno, di quelli che mai dovrebbero vedere la luce del sole, che fa capolino come un paguro, e per il dolore che comincia a salire, sembrerebbe quasi non sia successo niente.
Ovvio la colpa è la mia, non si salta in barca. Ma il motivo per cui non mi lamento è soprattutto un altro. Lo so che è stata lei a colpirmi: erano giorni che aspettava il momento per farmi capire come ci si sente ad urtare qualcosa di duro e stabile e invincibile. Anche se il danno esterno sembra trascurabile, si è improvvisamente e definitivamente violati. E fa male dentro. Così, dopo questo scambio di cortesie, io e la mia barca siamo ancora più intimi.
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