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Il piccolo fiocco inglese

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### by C.P.
##### created: mercoledì 5 ottobre 2011 03:23:24 Ora Legale Europa Centrale
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Usciamo da Porto Palma con la sola randa, preoccupati di evitare l'orda di derive che popola il passaggio. Sono così tante che mi perdo nel cercare di stabilire le precedenze in quel caos in continuo mutamento. Mi limito allora a proseguire in rotta, mura a dritta, costretto a fidarmi della manovrabilità altrui e sperando che nessuno si senta così sicuro della sua bravura da venire a scuffiare sotto la mia prua. All'ancora è successo. Due giorni fa, non certo ieri, con quel vento che ululava tra le sartie, che sollevava onda fin sotto i pontili della scuola nautica, appena sottovento alla costa. Ieri una delle poche barche alla fonda insieme a noi (ma lei alla boa, noi su due ancore appennellate) aveva il tender che le sventolava dietro come un aquilone che cerca di scappare a un bambino troppo piccolo per quel gioco. No, ieri le derive non avrebbero potuto prendere il mare: due giorni fa però, noi già all'ancora in attesa del Mistral, venivano a virare sopra la nostra catena, e in un paio di occasioni le prime raffiche avevano scaraventato in mare armo ed equipaggio a pochi metri dalle nostre murate.
Nonostante i timori, passiamo indenni tra i cuccioli velisti, e prima quasi di rendercene conto siamo fuori dal ridosso di monte Fico, il modesto promontorio che protegge a ovest l'entrata della baia.
Appena entriamo nel letto del vento la randa - terzarolata alla seconda mano - ci strattona verso est. Era calcolato, e voluto: l'idea è di lasciarci l'isola a ovest, risalire verso le Bocche e attraversarle per raggiungere la Corsica. Santa Amanza, forse, o una delle rade subito a nord di questa.
Proseguiamo al lasco, in un mare in cui onde bonsai replicano in scala ridotta un uragano. Le creste sono lame affilate dal vento, la schiuma nasconde il colore del mare. Proseguiamo al lasco, mentre cerco con lo sguardo la meda che segnala la secca tra noi e il golfo di Arzachena. Ricordo di averla vista venendo verso Caprera, e ho preparato sulla carta una rotta sicura, ma nonostante sappia che questa prora ci porta in acque libere, sento il bisogno della conferma visiva che la secca non è davanti a noi perché è laggiù, dove per laggiù accetterei qualsiasi direzione che non sia quella verso cui siamo diretti. Ma in questo mare nevrotico è difficile distinguere un minuscolo punto nero. Quando la avvisto l'abbiamo già dietro. Avevo se non altro calcolato bene la rotta.
Proseguiamo in favore di vento, quindi, per poi accostare a nord passata Punta Rossa e avvicinarci alle Bocche protetti da Caprera.
Il vento cala a ridosso dell'isola, mentre l'onda cambia direzione fino a venire di prua. A tratti ci troviamo fermi, o peggio scarrocciamo lentamente verso Est. Inutile dire che ci sono scogli, a Est, in questa zona, come quasi ovunque qui nell'arcipelago. Qui gli scogli sottovento non mancano mai.
Per mantenere un minimo di abbrivio - ho promesso di non issare il fiocco se non in acque libere, e comunque solo dopo aver visto cosa ci aspetta - allargo la rotta, assecondando un poco vento e onde.
E piano piano saliamo verso nord, con la cerata ben chiusa sotto l'autogonfiabile, e la cinghia di sicurezza ben agganciata alla lifeline che corre da poppa a prua.


 

Il mare monta, centimetro dopo centimetro, ma il vento non soffia davvero forte fino a quando non usciamo definitivamente allo scoperto. Qui il dubbio ci assale, ma lo vinciamo, perché ancora sembra tutto sopportabile, da noi, dall'attrezzatura, dallo scafo. Perché siamo stati fermi tre giorni ed è ora di tornare a casa. Perché dopo un mese di vela intorno alla Sardegna ci sentiamo più sicuri di noi, e quello che ancora questa primavera ci avrebbe atterrito ci appare ora come una situazione gestibile - strano come gli aggettivi perdano valore con l'esperienza, ma a volte basta il tempo. Pensiamo "è quasi fatta" quando invece tra noi e il mistral ci sono ancora le isole occidentali dell'arcipelago, seppur lontane. E andiamo avanti. Con la randa che non ce la fa a tirare la barca oltre le creste acuminate: acceleriamo a 3, a 4 nodi, poi un'onda più cattiva delle altre ci inchioda la prua lasciandoci ingovernabili come un tappo di sughero. E si fanno sempre più alte, e più ripide, e imprevedibili.
Il primo spruzzo è arrivato da un pezzo, trafilando sui materassi attraverso l'osteriggio di prua che, protetto - ostruito, meglio - dal tender, avevamo chiuso solo approssimativamente. Ma ora la barca tuffa la prua nelle onde, e la schiuma spazza la coperta. Le murate vengono martellate dalle pareti liquide, e l'acqua è spinta in alto e soffiata dal vento attraverso il pozzetto. Sempre più spesso arriva fino a me - seduto sopravento coi piedi puntati sulla panca opposta sono quasi in verticale - e mi riempie le orecchie gli occhi, la bocca. Strano questo sapore di mare, questo sapore conosciuto, perché queste onde non sembrano fatte della stessa materia in cui mi sono tuffato tante volte. Sembrano piombo quando si abbattono sulla murata. Sembrano vetro quando fanno capolino al livello dei miei occhi, e io vedo il cielo terso di maestrale attraverso i bagliori verdastri della cresta in procinto di frangere. Sembrano ghiaia quando sono curve sopra di noi e improvvisamente si ripete il miracolo - la poppa sale sale sale in alto, ristabilendo l'ordine naturale delle cose quando ormai sembrava improbabile - e collassano schiumando sotto lo scafo con rumore di frana.
Le vedo arrivare da lontano, giganti tra i giganti. Si avvicinano, si trasformano, si fondono, si scindono, poi sembrano sparire ma riemergono da sotto la superficie del mare proprio al mio fianco, risucchiano la poppa e poi la lanciano in alto, scivolando sotto di noi per frangere appena sottovento.
Ho dovuto correggere la rotta per non averle di prua, saremmo rimasti immobili in balia del caso, ma così facendo mi sto allontanando troppo dalla costa còrsa, sto andando verso il largo, dove non troverò mai ridosso da tutto questo.
Manuela è sottocoperta ora, a contare quante vie d'acqua ho lasciato nella mia riparazione delle guarnizioni degli oblò. Mi racconterà, più tardi, che la barca scricchiola in ogni sua giuntura, come se fosse il pasto di milioni di tarli.
Rimasto solo nel pozzetto non ha più senso tenere a riva la sola randa per paura di navigare troppo sbandati. Lascio il timone al pilota automatico e vado a prua col sacco del fiocco piccolo. Il "fiocco inglese" comprato usato oltre Manica quest'inverno. Una piccola meravigliosa vela in dacron pesante, bassa di penna e alta di bugna. L'ingarroccio allo strallo, alo la drizza dal pozzetto, la metto a segno cazzando la scotta sottovento. Amo questa piccola vela. La barca reagisce all'istante, accelerando e stabilizzandosi. Certo, la falchetta è ora praticamente in acqua, ma posso stringere il vento e mantenere velocità con il mare al mascone. Filiamo improvvisamente a 7 nodi, risalendo il vento e tagliando i marosi. Decido io da quale onda farmi bagnare e quale prendere al giardinetto, quando sventare le vele in attesa che passi la raffica. La barca è viva. E, direi con una punta di orgoglio, anche piuttosto cazzuta.
Punto decisamente su Porto Vecchio. Non ho modo di studiare di nuovo la carta, ma ricordo con certezza che è l'unico approdo lungo questa costa dove poter atterrare senza preoccuparsi di evitare secche, scogli, isole. E ancorare in sicurezza con qualsiasi condizione meteo, questa compresa.
Navighiamo di bolina, finalmente, risalendo le creste bianche di schiuma come montagne innevate, precipitandoci per i pendii scoscesi che portano al cavo dell'onda, risalendo ancora, la prua affilata puntata verso il cielo.
Il vento è teso, carico di spuma. L'albero è un'enorme arpa eolica, le sartie sopravento che vibrano quasi ululando, quelle sottovento talmente in bando che temo si svitino da soli gli arridatoi. È solo uno dei tanti timori, che sta lì da una parte, in coda a tutti gli altri, nella lista che ripasso automaticamente senza distogliere l'attenzione dal timone, dalle vele, dal mare irato che ci circonda. Possibili problemi, possibili soluzioni, in un corto circuito mentale che vorrebbe preparare gli automatismi che spero di non dover mai attivare. Ma che, ora più che mai me ne rendo conto, devono essere pronti ad agire in nostra vece nel tremendo momento del panico cieco. Perché se capitasse qualcosa adesso non dubito che questa sarebbe la prima reazione.
Solo poche ore fa, eravamo ancora all'inizio di tutto questo, la radio ha captato un mayday. La voce era di un inglese, tesa ma controllata. "The boat is aground, seven person aboard" preceduto da nome e posizione. L'uomo era disperato, ma la sua richiesta d'aiuto era chiara e completa. Questo intendo per automatismo. Non come altri, gommoni in difficoltà nel Sulcis - qualcuno aveva banalmente finito la benzina - talmente ansiosi da non riuscire nemmeno a spiegare dove si trovavano nel mondo.
E allora giù a ripassare le possibili vie d'acqua, tutte chiuse tranne gli ombrinali del pozzetto e la presa a mare del motore. Come fare ad accorgersi che qualcosa non va, come intervenire. Dove sono i coni di legno, gli attrezzi, o forse è meglio utilizzare una vela, o un cuscino....
E intanto continuo ad aprirmi la via tra le onde, sempre più alte - non finisce mai, quand'è che la Corsica mi farà ridosso? - ora le creste sono così alte e così sottili che ho l'impressione che allungando un poco il braccio sinistro potrei facilmente attraversarle. Sempre più spesso sono costretto a mettere la prua al vento per scaricare le vele e far passare una raffica. Ma quando poi riprendo la rotta, che gioia sentire la barca che accelera e corre verso la nostra meta, docile e potente allo stesso tempo! Non avrei avuto occasione di entrare in così intimo contatto con lei, se non fosse per questa traversata. Attraverso il timone io la sento, e mi tuffo nelle onde con lei, ci apriamo insieme la via tra le acque agitate. Io sono le sartie che sostengono l'albero, e le vele che catturano il vento. La prua che taglia le onde e il mascone che resiste ai marosi. Sono la lunga pala del timone che decide la rotta, e la deriva che la mantiene. Io sono la mia barca, in questo momento, e ho l'intima convinzione che, attraverso l'acciaio di questa ruota, attraverso queste mani che la governano, questo corpo che tutto partecipa, io sia per lei occhi e orecchi, in una simbiosi perfetta.
Dopo più ore di quante calcolate nella previsione più pessimista, al fine, giungiamo di fronte all'imboccatura del golfo di Porto Vecchio.
Non è stato facile riconoscere la costa. L'orizzonte è stato incerto per tutto il pomeriggio, e la costa solo un profilo scuro ritagliato nel cielo rosso di occidente. Gli occhiali incrostati di sale, cerco nel muro d'ombra in lontananza la leggera sfumatura che indica il passaggio sicuro tra lo scoglio non segnalato a sud e l'isolotto sormontato da un fanale a nord. Il GPS, in quadrato, ci conforta, ed mare già da un po' ha smesso di martellare il fianco sinistro, quando il vento cala del tutto, all'improvviso, a neanche mezzo miglio dall'imboccatura.
È quasi il tramonto, non conosco la costa e vorrei dare ancora, in un posto qualsiasi purché sicuro, prima che sia buio. Così penso subito di accendere il motore per non perdere minuti preziosi. E il motore non parte. Non gira nemmeno, per l'esattezza. Decido in un lampo che la batteria è scarica, viro di bordo senza toccate le scotte, metto il timone all'orza e prendo la cappa mure a dritta. Mi precipito da basso e frenetico libero la cuccetta di guardia, la nostra soffitta, per guadagnare accesso alle batterie e bypassare quella del motore. Prima di farlo ne misuro la carica: 12.7V!
Qui i miei automatismi a lungo vagheggiati cominciamo a vacillare, e nel dubbio, anzi nella totale ignoranza, provo a ripetere i riti propiziatori del caso: controllo l'olio, controllo l'acqua, controllo le cinghie e i cuscinetti, riprovo ad accendere.... Il motorino di avviamento fa mezzo giro e poi si blocca. Riesco a sentire la corrente che circola a vuoto negli avvolgimenti, che spinge gli ingranaggi, ma qualcosa inchioda il motore. Non ho molta scelta, e mentre mentalmente ripasso la manovra di ancoraggio a vela, considerando come corollario tutte le conseguenze del rimanere senza motore e quindi anche senza energia elettrica a 120 miglia da casa, chiudo la presa a mare e provo ad insistere. Mezzo giro e si blocca, mezzo giro, e si blocca, ancora mezzo giro, un giro, in giro e mezzo.... Finalmente il motore supera l'intoppo e parte, e io, colto di sorpresa, mi faccio piccolo e mi infilo di corsa nel vano per riaprire la valvola. Cos'era successo? Un'ipotesi, che il Meccanico condividerà, è che un poco d'acqua fosse risalita con lo sbandamento, il rollio, il beccheggio, lungo la marmitta e il collettore fino al primo cilindro, e impedisse con la sua incompressibilità il movimento dei pistoni. Comunque sia, il vecchio Nanni-Mercedes non ci ha più dato problemi dopo quel giorno, almeno: non ci ha più dato "quel" problema.

Nel frattempo il sole è tramontato da un pezzo oltre le cime della Corsica, ed è con le ultime luci del crepuscolo che indoviniamo la via d'ingresso al golfo.
Dopo la strettoia tra i due capi, e tra i due scogli, il fiordo si apre largo. Ma è buio ormai, quando facciamo rotta verso il più vicino punto di ancoraggio consigliato dal portolano.
Procedo piano nell'inchiostro della notte, avvicinandomi alla costa aiutato dalle indicazioni che Manu, sottocoperta, interpreta dal GPS. Il mio mondo finisce alle luci di via. Oltre, un cerchio freddo, duro, impenetrabile di oscurità. All'interno del cerchio, il fioco bagliore della bussola che punta fedele verso sud, e il display dell'ecoscandaglio che indica una profondità in lenta diminuzione, confermando l'avvicinarsi della costa. 16...14...13... in lontananza i fari di un automobile fluttuano da destra a sinistra nel mio campo visivo senza riuscire ad illuminare nulla. Saranno forse a 300 metri ma non so su quale strada si stiano muovendo, se litoranea o a mezza collina. Non ci fidiamo del GPS, non ci fidiamo dell'ecoscandaglio, del portolano o della carta nautica, e arrivati a 11 metri di acqua Manu cala l'ancora. Al buio è difficile perfino contare il calumo, e finiamo per darne oltre 50 metri, rischiando per poco di finire la catena, la cui maglia finale è assicurata alla barca da una vecchia sagola che da tempo avrei voluto cambiare.
L'ancora fa testa, e noi siamo finalmente al sicuro. Stremati, incrostati di sale, io bagnato fino al midollo. Sto lentamente metabolizzando l'adrenalina che mi ha sostenuto per tutto il giorno e i muscoli piano piano si rilassano. Che pace.
Il buio della notte, fino a poco fa minaccioso, sembra ora un morbido panno di velluto che ci ripara dalle crudeltà del mondo esterno. Il nostro piccolo guscio illuminato e caldo ci accoglie per il meritato riposo. "Domani è un altro giorno"

Commenti

  1. Bravo, complimenti per come scrivi, mi sembrava di essere a bordo.

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