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L'apprendista meccanico

Con una mano stringo la pinza, con l'altra il blocco dei bilancieri. Inserisco le punte dell'attrezzo dentro gli occhielli del fermo ad anello ("si chiama singer" mi informa il Meccanico) e comincio ad aprirlo. Le punte scivolano fuori, il fermo rimane dov'è. Riprovo. Sono in piedi accanto al motore disassemblato, e mi chino dentro la grossa bacinella che sto usando per lavare i singoli pezzi. Sul fondo c'è un dito di liquido scuro, risultato dei lavaggi con gasolio prima, benzina poi, dell'olio, del grasso e delle incrostazioni dei vari componenti del motore, e l'altro blocco bilancieri, quello del terzo e quarto cilindro. Riprovo, quindi. Forzo le punte della pinza negli occhielli e comincio ad aprire l'anello. Questa volta non cerco di far scorrere via il singer lungo l'asse, le pinze scivolerebbero fuori come hanno fatto finora, ma di allargarlo ancora di più per farlo uscire di lato. Ci riesco, finalmente le estremità scapolano il punto critico. Sono particolarmente contento, dato che da almeno 10 minuti sento di star dando uno spettacolo imbarazzante alle altre due persone presenti nell'officina che mi ospita. Il Meccanico proprietario, che mi dà indicazioni intervenendo in prima persona nei passaggi più difficili della riparazione del mio povero motore, sicuramente conosce un qualche trucco che gli permetterebbe di risolvere il problema in dieci secondi. L'altro, un giovane Aitante titolare di un'officina meccanica, risolverebbe anche lui con facilità, anche se magari in venti o trenta secondi. Non ho problemi ad ammettere che sono il più scarso qua dentro, sono di fatto un pesce fuor d'acqua, ciononostante il mio amor proprio soffre nell'immaginarmi visto da fuori, laureato imbranato alle prese con uno sciocco fermo meccanico ad anello, ignaro persino del termine singer che lo identifica all'interno della casta dei meccanici ed affini.
I due meccanici in realtà non si curano di me. A quanto mi sembra di capire mentre mi ingegno ad apparire almeno parzialmente professionale, il Meccanico si sta preparando ad uscire  per un lavoro da fare non so a quale barca, mentre l'Aitante ha un problema che finge di sapere come risolvere con un motore che sta riparando nel suo box, sperando così di ottenere la soluzione dal mio mentore.
Sul più bello il singer si libera dalle pinze. Gli occhielli scivolano via dalle punte, si richiudono sul lato esterno dell'asse, spingendo l'anello fuori dalla sua sede a una velocità tale da spararlo verso il fondo della bacinella e poi, di rimbalzo, verso la mia destra. Sento un tintinnio lontano, unico segnale della posizione dove dovrò andare a cercarlo se voglio rimontare il pezzo che ho in mano.
Do un'occhiata, ruotando la testa con naturalezza forzata, non se ne sono accorti e forse faccio in tempo a cancellare l'errore. Gli angoli dell'officina sono ingombri di oggetti di ogni tipo. Due biciclette, una scala, un mucchio di blocchetti di legno e di teflon, le molle di un materasso, segatura, una busta nera piena di non so cosa, una pressa idraulica. A prima vista il singer sembra sparito. Il Meccanico si avvia verso l'uscita. Non so quanto rimarrà fuori, e non voglio rimanere fermo - ha promesso che in serata tirerà fuori la chiave dinamometrica per chiudere la testata ma devo fargli trovare tutto pronto - così cercando di usare un tono colloquiale gli butto lì che il "fregnetto ad anello che tiene i pezzi insieme sull'asse" è saltato in un angolo e potrei anche non ritrovarlo. "Si chiama singer" mi fa lui, e mi indica una scopa suggerendomi di cercarlo meglio: non può essere sparito. Ad ogni buon conto, però, mi tira fuori una scatola metallica piena di fermi, coppiglie, chiavi per assi ed eliche di ogni tipo. Un tesoro da cui potrò attingere in caso di ricerca infruttuosa. Mi saluta ed esce, inseguito per un breve attimo dall'Aitante.
Io rimango solo nell'officina. Non è la prima volta in questi giorni. Arrivo a Civitavecchia, lavoro in ufficio la mattina, a ora di pranzo telefono al Meccanico, lo raggiungo, lui mi dà le chiavi e le istruzioni del giorno. Passo in barca per cambiarmi e poi, travestito da meccanico della domenica, entro in officina, accendo le luci, la radio, e passo il mio pomeriggio lavorando sul motore.
Nel mentre che smonto, pulisco, gratto, lucido soffio, mi calo gradualmente nel ruolo di tenutario di questo piccolo mondo.
Il blocco dei bilancieri, quello del primo e secondo cilindro, ho dovuto smontarlo perché i singoli elementi non si muovono liberamente lungo l'asse.
Li sfilo uno ad uno, un paio forzandoli, e scopro che l'asse è rigato. Dopo trentaquattro anni di onesto lavoro mi sembra accettabile, e senza nessun sentimento ostile o vendicativo prendo a lucidarlo con un pezzetto della carta smeriglio più fina e consumata che trovo sul bancone.
Lucido, lavo con gasolio, soffio, provo, di nuovo lucido, di nuovo provo. I pezzi piano piano cominciano a girare con più facilità, con meno scatti.
Nel parcheggio di fronte si ferma una macchina. Ne esce un tipo di mezz'età, con pochi capelli compensati dalla pesantezza della montatura degli occhiali. Comincia ad esporre a me il suo problema: una puleggia montata male, una cinghia che sfrega dove non dovrebbe. Io non lo fermo, impiegherei una vita a fargli capire chi sono e perché sono qui, e poi per cinque minuti mi godo la sensazione di essere qualcun altro - non più di un garzone di bottega, in questo caso, ma già basta. Alla fine mi limito a commentare genericamente contro quelli che montano male le pulegge e a consigliargli di telefonare al Meccanico, che comunque sarebbe tornato di lì a poco. Lui non demorde, è chiaro che non ha niente da fare e vuole farlo lì con me. Io dopo un po' ritorno al mio asse da lucidare, lui piano piano perde mordente e prima di aver finito sono di nuovo solo.
Ora rimonto. I pezzi scorrono bene, ma senza giogo. Sono ben lavati e soffiati. Anche i condotti interni (l'asse è forato per permettere all'olio di andare a lubrificare le bronzine dei bilancieri) sono stati puliti. Il seeger (questo è il nome corretto, scoprirò poi) l'ho cercato in lungo e in largo, spazzando metà dell'officina dalla porta d'ingresso al sostegno in metallo al centro della stanza, su cui poggia il motore, ma non sono riuscito a trovarlo. Così attingo dal tesoro. Ne provo uno: troppo grande, gira inseme ai pezzi. Ne provo un altro: troppo piccolo, o forse semplicemente più piccolo dell'originale, perché il suo lavoro lo fa. Lo lascio con l'idea di chiedere conferma. Poggio il blocco così rimontato accanto all'altro. Si nota che è più lucido, sembra un buon lavoro. Solo che i martelletti dove il bilanciere è spinto dall'asta della distribuzione sono invertiti. Smonto di nuovo, inverto, confronto: ho sbagliato di nuovo. La terza volta le possibilità di errore sono talmente basse che ci azzecco.
Ora passo al monoblocco: lo devo smerigliare fino a far sparire le tracce della vecchia guarnizione. E già che ci sono proverò a scrostare la testa dei pistoni, senza esagerare, certo.
Mi armo di pazienza e carta smeriglio, la imbevo di gasolio e comincio. Da un lato le incrostazioni vanno via, dall'altro si consumano le mie impronte digitali. Mentre rifletto, dubbioso, sul luogo comune che vuole che i meccanici siano esagerati nelle loro richieste economiche, entra l'Aitante. Cerca il Meccanico.
"Ma tu lo sai quant'è il serraggio del volano del Volvo 40?" Io non so nemmeno cosa sia un Volvo 40, e infatti potrei anche aver sbagliato a riportare la sigla. Lui però non aspetta la mia risposta, e subito arma il telefonino e telefona al mio principale. "Pronto, so' io. Che la sai la coppia di serraggio del volano del Volvo 40?" riporto lo stessa sigla ma potrei aver sbagliato di nuovo "No? Nemmeno a occhio?" l'Aitante insiste, ma il Meccanico, abbia o meno l'informazione, oggi non gliela passa "Vabbè, me la invento". E chiude la telefonata. Mi accenna un saluto, s'infila il telefono in tasca e se ne torna via fischiettando a torso nudo sotto il sole di maggio. Lo sento che ripete tra sé e sé, ad alta voce: "...e io me la invento!".
Ho finito col monoblocco, e passo alla testata.
Me la metto di taglio sul banco da lavoro, la lavo, inizio a scrostarla. Le valvole stanno bene, anche se sulla loro superficie si vedono i segni dell'età. Le pulisco senza esagerare. Lavo, soffio. Dalla parte sbagliata: un getto d'olio e morchia polverizzata mi si deposita con violenza in piena faccia. Fortuna che ho gli occhiali: posso limitarmi a lavare le lenti dal velo grigio che le ha opacizzate uniformemente. Torna il Meccanico, finalmente è arrivato il momento: chiuderemo la testa. Gli faccio un resoconto delle persone che lo hanno cercato, compreso il corriere che ha lasciato i filtri nell'angolo del sottoscala.
"Ce l'hai la coppia di serraggio?" mi chiede. Sì, ce l'ho. L'ho trovata su due manuali di officina del mio vecchio, glorioso Mercedes scaricati da internet, uno in inglese, uno in tedesco. Il primo incompleto, il secondo incomprensibile, a partire dal titolo: OM636 Reparaturanleitung. Per trovare le informazioni necessarie ho dovuto effettuare uno studio comparato, in perfetto stile Champollion, individuando tramite le similitudini tra le illustrazioni dove nel secondo erano riportate le parti del motore per le quali, nel primo, i serraggi erano indicati in oscure unità di misura sassoni di inizio XX secolo. Sfoglio il Reparaturanleitung fino al segno: tre passaggi a 4, 6 e 8 mKg. Accanto c'è un diagramma con l'ordine con cui vanno stretti i 17 dadi della testata.
Procediamo: il Meccanico prende la chiave dinamometrica dall'armadietto metallico, e la regola su 40 KNm, il primo valore. Io apro la confezione della nuova guarnizione, scoprendo così che all'interno ci sono le istruzioni per il montaggio, in lingue comprensibili. Se non altro coincidono con i manuali cartacei.
Poggiamo la guarnizione sul monoblocco, e la testata a chiudere. Infiliamo i bulloni, puliti e ingrassati, avvitandoli a mano, poi ci prepariamo per la prima delle tre strette finali.
In quel momento entra l'Anziano. Resterà con noi fino a fine serata. Si mette lì, osserva inizialmente in silenzio. Poi il Meccanico lo imbocca: "Lo sai che lavoro fa lui?" indicandomi con un sopracciglio, entrambe le mani sulla chiave dinamometrica. È tipico: ogni volta che entra un suo amico, uno con cui ha voglia di parlare, mi presenta in questo modo. C'è da dire che, vuoi perché insospettiti dalla domanda, vuoi forse per una qualche incongruenza nel mio aspetto, vuoi per istinto, pochi rispondono - come sarebbe forse naturale, trovandomi con una chiave inglese in mano, accanto ad un motore aperto, unto di grasso fino ai gomiti - "fa il meccanico". La maggior parte nicchia, prende tempo, alcuni si lanciano in professioni improbabili. Una tipa si avvicina in parte dandomi dell'ingegnere - il che a dir la verità avrei considerato offensivo fino a pochi anni fa, prima di arrivare a perdere interesse per gli ingegneri. Nessuno indovina, con massima soddisfazione del Meccanico che può dichiarare, come annunciandomi per darmi il permesso di entrare in ballo, "il Geologo". Che poi, geologo, che significa? Faccio il geologo? Sì, forse, a volte. In questo momento sono un apprendista meccanico, e sto indicando uno a uno i bulloni da stringere, tenendo contemporaneamente il conto di quelli già stretti.
Ma il Meccanico, quello vero, insiste: "Lui ha fatto i rilievi di tutte le banchine, vero?" costringendomi ad annuire.
Vero, proprio pochi mesi fa, confermo. E mi lancio in una blanda descrizione di come ho fatto e di cosa c'è sotto l'acqua lungo i paramenti dei moli del porto di Civitavecchia. Ma il mio interlocutore, con mia sorpresa, sa già come son fatti i moli, perché ricorda esattamente i lavori di riparazione effettuati su ciascuno. Chiama i moli con i loro nomi, o seguendo la numerazione convenzionale. Il 6, ad esempio, è quello davanti al forte, quello che hanno appena risistemato per permettere agli armatori dei megayacht di attraccare e scendere a terra senza impolverarsi le suole delle scarpe. Il 5 è quello in travertino davanti alla Capitaneria.
Mi racconta di quando una nave in manovra è finita dritta contro la testata dell'otto, infilando la prua nei silos. Io confermo, interessato, credo di ricordare dei danni mal rattoppati individuati dal sonar proprio lì dove dice lui. I racconti proseguono. Ha passato la vita sui rimorchiatori, e ne ha di storie. Di quando Civitavecchia era diversa, bombardata, rasa al suolo e poi ricostruita. Di quando il mare arrivava a lambire le mura del Bastione Santa Barbara, di quando il San Teofanio era collegato al Lazzaretto da una ininterrotta fortificazione. Del fortino gemello, ora sparito, che dava il nome al Molo del Bicchiere a chiudere il vecchio porto verso Sud. I vecchi ricordi si susseguono, episodi storici, alcuni già conosciuti da altre fonti. Su altri posso addirittura intervenire, a dare man forte dal punto di vista storico o scientifico - ho il mio ruolo, in questo.
Intanto la chiave dinamometrica fa il suo lavoro: io indico il dado, lei stringe. Siamo alla seconda passata, a 60 KNm.
Racconto della nostra vecchia barca, un 6 metri in compensato a chiglia doppia finito chissà come quaggiù dopo essere stato presumibilmente costruito per zone in cui l'escursione di marea era tale da giustificare tale soluzione, che tenevamo in darsena romana, nel Mucchio. Il Mucchio era un agglomerato informe di barche da pesca, da diporto, da lavoro, che dal molo si estendeva fino al centro del bacino. Solo le prime erano ormeggiate in banchina, le altre erano tenute reciprocamente in posto da un intrico di funi. Ovviamente più eri vicino alla periferia meno impiegavi a liberarti, con l'unica scomodità di dover raggiungere la tua barca passando, più o meno agevolmente, su tutte le altre. Al contrario, essere vicino al molo ti permetteva di salire comodamente a bordo, ma ti condannava ad impiegare almeno mezz'ora districarti dalla ragnatela di cime che aprivi a prua e richiudevi a poppa man mano che attraversavi l'agglomerato e ti avvicinavi alla sua periferia e alle acque libere. C'era una continua competizione, di solito - ma non sempre - silenziosa, per accaparrarsi i posti più ambiti, quelli periferici. Funzionava in maniera estremamente semplice: chiunque tornava in porto si attaccava all'estrema periferia, anche se era partito dal centro o addirittura dal molo. Il Mucchio era perciò un agglomerato dinamico, in cui le barche che uscivano spesso rimanevano in equilibrio instabile lungo i bordi, mentre quelle che uscivano di rado venivano pian piano risucchiate fino a ritrovarsi, prima o poi, di nuovo in banchina.
Abbiamo finito con la seconda passata, e il Meccanico chiama la pausa caffè: la guarnizione deve adattarsi prima della stretta finale a 80 KNm. Al bar offre lui, e mentre torniamo lentamente verso l'officina il discorso cade sui motori a inversione. Io, da ignorante, non ne so nulla, e così mi beo dei racconti dei due su questi enormi diesel che lavorano a 120 giri (o forse sarebbe il caso di chiamarli battiti) al minuto, che per invertire il senso di marcia della nave devono essere materialmente spenti e poi riaccesi - ad aria compressa - in senso inverso.
L'Anziano tenta di trasmettermi l'ansia che si provava in plancia di un rimorchiatore quando, comandato "macchine indietro", si vedeva l'ostacolo sempre più vicino fino a che, magari al secondo o al terzo tentativo, giù in sala macchine il direttore riaccendeva il motore e l'elica cominciava a smorzare l'abbrivio.
Attacchiamo la terza passata, procediamo rapidi e in pochi minuti la testata è definitamente al suo posto. Si è fatta l'ora di andare a casa, e mi occupo di risistemare gli attrezzi e coprire il paziente con un panno pulito. Domani penserò io a rimontare pezzo pezzo le aste, i bilancieri, gli iniettori, i condotti dell'aria e lo scambiatore di calore. Ancora poche ore di lavoro e potrò uscire trionfante dall'officina guidando la piccola processione fino al molo Lima dove, con l'aiuto di Poseidone ed Efesto, potrò ricomporre l'unione tra la Duna e il suo motore.
Ora siamo fuori, io, il Meccanico e l'Anziano. Gli ultimi strascichi degli ultimi racconti, i primi saluti. Aiuto a spostare dentro la bicicletta e, mentre il lucchetto dell'officina fa "click", un oggetto minuscolo e scuro al centro del parcheggio attira la mia attenzione. Mi chino, lo raccolgo.
È il mio seeger.
 

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