È notte, sono a letto e guardo il soffitto.
Dalla piccola finestra di questa mansarda la luce della luna piena entra a carezzare il nostro sonno. Ma io non dormo.
Ascolto, qui vicino, il mare. Il suo respiro regolare, il suo russare quieto come quello di un anziano parente, un po' burbero, i cui interminabilli racconti hanno il gusto malinconico di avventure passate eppure possibili. Possibili eppure passate.
Ho fatto ancora una volta le valigie. Ho impacchettato tutti gli oggetti che mi hanno aiutato a vivere in questa casa negli ultimi due mesi e li ho caricati in macchina, impilandoli poi in un garage lontano da qui.
Ho piegato i miei tappeti da nomade con i gesti istintivi del nomade che sposta il suo accampamento con la nuova stagione. Le stelle sono in posizione, anche quest'anno è tempo di migrare.
Ma il nomade i cui pronipoti hanno tessuto questi tappeti sapeva, ogni anno, dove andare. E quando, e dove, sarebbe tornato. Era, a suo modo, un pendolare. Aveva la sua stabilità.
Perché è possibile sperimentare la stabilità in un sistema in movimento, purché sia inerziale. Purché il moto sia uniforme, costante, senza scosse o curve strette, improvvise frenate e brusche accelerazioni.
E di pochino di stabilità, di una qualche certezza sia pure in questo continuo sfuggire ai lacci di una vita "normale", avrei in tutta sincerità anche io bisogno.
Invece quest'anno più che mai, partendo in ritardo sulle stelle che da tempo hanno segnalato la necessità di spostare il campo, ho ben poche certezze. Ho un treno da prendere, e una barca, e forse un traghetto. Ma poi? Cosa devo mettere in valigia, per un viaggio di cui conosco a malapena la data di inizio, e il cui arrivo a destinazione sarà solo una nuova, ancora più incerta, partenza?
A volte sento il bisogno di selezionare in un singolo, piccolo bagaglio i pochi oggetti necessari a sopravvivere in leggerezza. A volte vorrei invece una carovana di cammelli da caricare con le mie più inutili cianfrusaglie e gli affetti di tutta una vita. A volte vorrei partire per scattare foto e spedire cartoline, a volte per fondare colonie oltre i confini della civiltà conosciuta. A volte vorrei sapere cosa voglio.
Ma tutto sommato, forse, dovrei semplicemente assecondare l'inerzia del mio sistema in perenne movimento: appoggiarmi alla parete del treno, alla murata della nave, allo schienale della sella del mio cammello, sistemare la visiera del cappello e godermi il viaggio.
Dalla piccola finestra di questa mansarda la luce della luna piena entra a carezzare il nostro sonno. Ma io non dormo.
Ascolto, qui vicino, il mare. Il suo respiro regolare, il suo russare quieto come quello di un anziano parente, un po' burbero, i cui interminabilli racconti hanno il gusto malinconico di avventure passate eppure possibili. Possibili eppure passate.
Ho fatto ancora una volta le valigie. Ho impacchettato tutti gli oggetti che mi hanno aiutato a vivere in questa casa negli ultimi due mesi e li ho caricati in macchina, impilandoli poi in un garage lontano da qui.
Ho piegato i miei tappeti da nomade con i gesti istintivi del nomade che sposta il suo accampamento con la nuova stagione. Le stelle sono in posizione, anche quest'anno è tempo di migrare.
Ma il nomade i cui pronipoti hanno tessuto questi tappeti sapeva, ogni anno, dove andare. E quando, e dove, sarebbe tornato. Era, a suo modo, un pendolare. Aveva la sua stabilità.
Perché è possibile sperimentare la stabilità in un sistema in movimento, purché sia inerziale. Purché il moto sia uniforme, costante, senza scosse o curve strette, improvvise frenate e brusche accelerazioni.
E di pochino di stabilità, di una qualche certezza sia pure in questo continuo sfuggire ai lacci di una vita "normale", avrei in tutta sincerità anche io bisogno.
Invece quest'anno più che mai, partendo in ritardo sulle stelle che da tempo hanno segnalato la necessità di spostare il campo, ho ben poche certezze. Ho un treno da prendere, e una barca, e forse un traghetto. Ma poi? Cosa devo mettere in valigia, per un viaggio di cui conosco a malapena la data di inizio, e il cui arrivo a destinazione sarà solo una nuova, ancora più incerta, partenza?
A volte sento il bisogno di selezionare in un singolo, piccolo bagaglio i pochi oggetti necessari a sopravvivere in leggerezza. A volte vorrei invece una carovana di cammelli da caricare con le mie più inutili cianfrusaglie e gli affetti di tutta una vita. A volte vorrei partire per scattare foto e spedire cartoline, a volte per fondare colonie oltre i confini della civiltà conosciuta. A volte vorrei sapere cosa voglio.
Ma tutto sommato, forse, dovrei semplicemente assecondare l'inerzia del mio sistema in perenne movimento: appoggiarmi alla parete del treno, alla murata della nave, allo schienale della sella del mio cammello, sistemare la visiera del cappello e godermi il viaggio.
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