"May I help you?" e mi avvicino alla tedesca avvizzita e curva che, con inutili colpi di clava, sta cercando di smontare un trabattello tra le barche in secco alla mia destra.
Il sole già picchia forte qui al marina Evros di Lakki, e nonostante abbia premura di raggiungere i bagni mi pare davvero maleducato lasciare l'anziana signora a se stessa. E anche il trabattello.
Mi avvicino, dicevo, e le tolgo gentilmente di mano la clava. Supero con un gesto alcune migliaia di anni di evoluzione utilizzando il medesimo oggetto come leva: come per magia il telaio viene via in un amen. La tedesca se lo carica sulle spalle curve e se lo porta via svelta, tra le pance polverose degli scafi, mormorando "Thank you, I can handle it now".
Neanche un saluto. Che burina, penso. E poi, subito dopo: il Covid, cazzarola! Me ne ero dimenticato. Per questo qui in cantiere ognuno si fa i fatti suoi, e nessuno si interessa a noi.
Per questo, del resto, a fine giugno tutte le barche sono ancora in secco, e tutto questo gigantesco piazzale gremito di scafi e chiglie e alberi e timoni è abitato al massimo da cinque coppie, noi compresi. E la stessa cosa succede ai cantieri di Partheni, e in ogni karnagio di tutta la Grecia e forse del mondo. Con tutte queste barche in secco, il livello del mare sarà certo più basso del normale, andrebbero riviste le carte nautiche.
E sempre per il Covid siamo bloccati qui, in questa splendida, malinconica Leros, ospiti di Riccardo su Rorri, in attesa cadano le ultime restrizioni alle frontiere e ci sia permesso entrare in Turchia. Ad oggi no, non si può andare di là se non passando per la Svizzera o la Serbia. Maledizione.
Siamo così abituati alla libertà di movimento (quella nostra: quella altrui non l'abbiamo altrettanto a cuore) che la diamo per scontata. Ci rendiamo conto di averla solo quando ne sentiamo la mancanza, quando qualcosa ci ricorda quanto poco peso abbiamo, singolarmente, di fronte a una semplice linea immaginaria tracciata nelle acque profonde tra qui e la costa dell'Asia minore poche miglia più a est.
E contemporaneamente, siamo davvero così poco abituati alla libertà, così intrisi di fretta e sensi di colpa, che messi di fronte alla possibilità, tangibile, di non fare veramente ma veramente NULLA di qui ad almeno una settimana, invece di rilassarci e prenderla come viene ci adombriamo, nervosi, e pretendiamo di progettare improbabili fughe e rocambolesche incursioni per riscattare avventurosamente la nostra Duna.
Non credo ci sporcheremo la faccia di lucido da scarpe per entrare a nuoto a Kas, e neanche che pagheremo un pirata per rapire Duna e portarcela in mare aperto. Quello che è più probabile, anzi, quel che è certo, è che in un modo o nell'altro ai primi di luglio metteremo piede in Turchia. Probabilmente rimarremo a navigare lì per un po', approfittando degli spazi lasciati vuoti dalle vacanze in caicco disdette, e sicuramente passeremo in Grecia per agosto, rimanendo poi di qua anche a settembre.
Poi, da ottobre in poi, chi lo sa.
Il sole già picchia forte qui al marina Evros di Lakki, e nonostante abbia premura di raggiungere i bagni mi pare davvero maleducato lasciare l'anziana signora a se stessa. E anche il trabattello.
Mi avvicino, dicevo, e le tolgo gentilmente di mano la clava. Supero con un gesto alcune migliaia di anni di evoluzione utilizzando il medesimo oggetto come leva: come per magia il telaio viene via in un amen. La tedesca se lo carica sulle spalle curve e se lo porta via svelta, tra le pance polverose degli scafi, mormorando "Thank you, I can handle it now".
Neanche un saluto. Che burina, penso. E poi, subito dopo: il Covid, cazzarola! Me ne ero dimenticato. Per questo qui in cantiere ognuno si fa i fatti suoi, e nessuno si interessa a noi.
Per questo, del resto, a fine giugno tutte le barche sono ancora in secco, e tutto questo gigantesco piazzale gremito di scafi e chiglie e alberi e timoni è abitato al massimo da cinque coppie, noi compresi. E la stessa cosa succede ai cantieri di Partheni, e in ogni karnagio di tutta la Grecia e forse del mondo. Con tutte queste barche in secco, il livello del mare sarà certo più basso del normale, andrebbero riviste le carte nautiche.
E sempre per il Covid siamo bloccati qui, in questa splendida, malinconica Leros, ospiti di Riccardo su Rorri, in attesa cadano le ultime restrizioni alle frontiere e ci sia permesso entrare in Turchia. Ad oggi no, non si può andare di là se non passando per la Svizzera o la Serbia. Maledizione.
Siamo così abituati alla libertà di movimento (quella nostra: quella altrui non l'abbiamo altrettanto a cuore) che la diamo per scontata. Ci rendiamo conto di averla solo quando ne sentiamo la mancanza, quando qualcosa ci ricorda quanto poco peso abbiamo, singolarmente, di fronte a una semplice linea immaginaria tracciata nelle acque profonde tra qui e la costa dell'Asia minore poche miglia più a est.
E contemporaneamente, siamo davvero così poco abituati alla libertà, così intrisi di fretta e sensi di colpa, che messi di fronte alla possibilità, tangibile, di non fare veramente ma veramente NULLA di qui ad almeno una settimana, invece di rilassarci e prenderla come viene ci adombriamo, nervosi, e pretendiamo di progettare improbabili fughe e rocambolesche incursioni per riscattare avventurosamente la nostra Duna.
Non credo ci sporcheremo la faccia di lucido da scarpe per entrare a nuoto a Kas, e neanche che pagheremo un pirata per rapire Duna e portarcela in mare aperto. Quello che è più probabile, anzi, quel che è certo, è che in un modo o nell'altro ai primi di luglio metteremo piede in Turchia. Probabilmente rimarremo a navigare lì per un po', approfittando degli spazi lasciati vuoti dalle vacanze in caicco disdette, e sicuramente passeremo in Grecia per agosto, rimanendo poi di qua anche a settembre.
Poi, da ottobre in poi, chi lo sa.
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