Sono qui, davanti a me, turchi e vittime di loro stessi. In mezzo al porto su uno yacht grigio di dimensioni "vorrei ma non posso" nuovo di pacca. Due ragazzi in maglietta bianca al musone di prua, l'armatore e la sua bionda industriale sul fly bridge, ai comandi. La loro ancora a pennello, incastrata sotto tutte le altre.
Ecco il porto di Simi alle cinque del pomeriggio di un giorno di agosto in cui in Turchia, qui davanti, è festa nazionale. Arriviamo - come sempre nelle ultime settimane - in due barche: io al timone di Orpheas, il 48 piedi dove stiamo sfangando il clou della stagione, MaLa prodiera e addetta al primo vaffanculo a prua (in questo operiamo come un rasoio bilama, lei alza il pelo e io lo taglio) e Ale con Kallikratis. Eravamo convinti, illusi, di essere in orario per trovare posto. Ah!
Un grosso motoscafo galleggia a mezzo porto con l'ancora incastrata sotto due catene. Un altro gli gira intorno, in attesa di una mossa falsa del primo per calare il suo calumo e fregarsi uno dei pochi posti rimasti. Mi fermo, timoroso del vento, dell'abbrivio, delle acque ristrette tutto intorno e oltre. E tutti i ritardatari intorno a me mi circondano, e mi superano.
Tempo cinque minuti e lo stesso Alessandro mi chiama sulla radio, "Perché ti sei fermato Carle'? Io vado avanti", e si infila nello stretto passaggio tra lo yacht in difficoltà, quello in attesa di fregarsi il posto e i condomìni galleggianti del molo di rappresentanza. Impiega ancora meno per rimanere incastrato tra i due e un terzo motoscafo, rosso bordeaux, altissimo e coattissimo, che finge di essere solo al mondo e passa a tutta manetta facendo il pelo a tutti tra lo stupore del mio equipaggio, non avvezzo alla ignoranza gretta, quella che fa rischiare anche il danno personale pur di affermare la propria unica inutile stupida gratuita arroganza. Dopo un minuto e un paio di collisioni fallite Ale torna indietro con la coda tra le gambe, svicolando abilmente in retro tra i flutti artificialmente creati dall'alta pressione di bestemmie che come una cappa opprime l'intero porto in questo tardo ossessivo pomeriggio. I Turchi col Bavaria che ci hanno superato baldanzosamente un attimo fa non hanno trovato posto in fondo - è ovvio che non c'è rimasto nulla - e tornano indietro facendoci arbitrariamente cenno di liberargli la strada. Un caicco mi pressa da dietro, Nerino continua a spronarmi in lodigiano nell'orecchio sinistro "Eh, qui a Simi è così, devi infilarti dentro senza guardare in faccia a nessuno." Dalla banchina una poliziotta panzuta e sudata suona il suo fischietto con una dedizione pari a quella di un muezzin turco durante gli ultimi giorni del Ramadan, prima per cacciarmi, poi per dirmi di lasciare spazio al traghetto che sta per liberare la banchina, poi per invitarmi a calare l'ancora e sbrigarmi perdìo.
Alessandro nel frattempo si è portato avanti, e si è imbucato nell'ultimo posto disponibile non appena lo yacht nel mezzo del porto ha liberato la sua catena ed è scappato verso il mare aperto, come tutti dovremmo fare se solo avessimo tempo di centellinare un attimo di saggezza. Ma non abbiamo tempo, o meglio lo abbiamo ma non è nostro: è in prestito, e una specie di ottenebrante senso di colpa mi attanaglia mentre aspetto. Aspetto, evitando barche, evitando di abbaiare alla poliziotta, evitando di abbordare i Turchi col loro Bavaria che vogliono per forza andare in banchina prima di noi, evitando di spiegare ai più ansiosi del mio equipaggio che il comandante sono io e il Comandante, in manovra, è come il Cavaliere Nero.
MaLa litiga coi Turchi, e ottiene la promessa che faranno andare prima noi. Allora le faccio un cenno e lei cala l'ancora. La caliamo alla nostra maniera, di prua, per essere sicuri di non prendere nessuno e non aver problemi domattina. Quando provo a girarmi con la mia solita manovra alla viareggina (cit. T.) scopro per prima cosa che la Orpheas, nonostante l'elica di prua e il motore da 70 cavalli, ha la reattività di un carrello dell'Ikea stracarico di armadi componibili, la seconda che il Turco - mai fidarsi di un infedele! - non ha tenuto fede alla promessa e sta incrociando la sua catena sopra la mia, subito alla mia poppa, impedendomi di completare il 180° e obbligandomi quindi prima a spostarmi e poi a fermarmi. Mi passa praticamente sopra, e quando provo a completare il mio ormeggio salta fuori anche un harbour master biancovestito - che Iddio possa ricordarsi di lui - che mi urla di aspettare. Aspettare? Ho 50 metri di catena in acqua, un nomade delle steppe mongole a tombarmi l'ancora e un caicco di suoi parenti allevati tra le pecore che fregandosene di tutto e tutti mette la sua firma incrociando in diagonale il suo calumo del 14. Devo aspettare che finiscano, e aspetto. Evitando le barche, le provocazioni e i consigli del mio equipaggio "Eh, a Simi è così, lo sanno tutti, dovevi entrare deciso non guardando in faccia a nessuno". Sono Buddah, nella sua reincarnazione marina, e rimango tale anche dopo aver preso consapevolezza che non sono ancora arrivato e già ho due ancore sopra la mia. Sono talmente calato nel personaggio che quando finalmente metto le cime agli anelli del molo scendo e vado a ringraziare la poliziotta grassa dal grosso fischietto per la sua pazienza. E ne ha avuta, poverina, la bastarda, sotto lo scoppio del sole nella sua divisa blu a pantaloni lunghi, e anfibi.
L'ultimo problema aveva provato a darmelo lo yacht grigio turco dalle dimensioni "vorrei ma non posso", tallonandomi da dietro come se stessi manovrando e dovessi quindi levarmi di mezzo, mentre invece ero all'ancora, praticamente alla ruota, in attesa che finissero di accumulare ferro sul mio calumo.
Il grande Dante avrebbe apprezzato la fine della storia, con il motoscafo che prova a ormeggiare, viene fermato dai fischi della poliziotta, esita un poco e, in quel breve attimo, viene preceduto in banchina da tutti gli altri, che non solo gli fregano ogni posto disponibile, ma calano le loro catene sulla sua condannandolo a rimanere lì, al centro, smarrito.
Anche oggi il sole tramonta lento tingendo di rosa le facciate delle case di Symi. Buddah, sorseggiando la sua birra, osserva con la coda dell'occhio lo yacht grigio e ridacchia divertito dai commenti caustici di Dante. Il loro compagno di sbronze, il Cavaliere Nero, rimane muto ad osservare la luce sfumare lentamente nel buio della sera, finalmente in pace.
Un grosso motoscafo galleggia a mezzo porto con l'ancora incastrata sotto due catene. Un altro gli gira intorno, in attesa di una mossa falsa del primo per calare il suo calumo e fregarsi uno dei pochi posti rimasti. Mi fermo, timoroso del vento, dell'abbrivio, delle acque ristrette tutto intorno e oltre. E tutti i ritardatari intorno a me mi circondano, e mi superano.
Tempo cinque minuti e lo stesso Alessandro mi chiama sulla radio, "Perché ti sei fermato Carle'? Io vado avanti", e si infila nello stretto passaggio tra lo yacht in difficoltà, quello in attesa di fregarsi il posto e i condomìni galleggianti del molo di rappresentanza. Impiega ancora meno per rimanere incastrato tra i due e un terzo motoscafo, rosso bordeaux, altissimo e coattissimo, che finge di essere solo al mondo e passa a tutta manetta facendo il pelo a tutti tra lo stupore del mio equipaggio, non avvezzo alla ignoranza gretta, quella che fa rischiare anche il danno personale pur di affermare la propria unica inutile stupida gratuita arroganza. Dopo un minuto e un paio di collisioni fallite Ale torna indietro con la coda tra le gambe, svicolando abilmente in retro tra i flutti artificialmente creati dall'alta pressione di bestemmie che come una cappa opprime l'intero porto in questo tardo ossessivo pomeriggio. I Turchi col Bavaria che ci hanno superato baldanzosamente un attimo fa non hanno trovato posto in fondo - è ovvio che non c'è rimasto nulla - e tornano indietro facendoci arbitrariamente cenno di liberargli la strada. Un caicco mi pressa da dietro, Nerino continua a spronarmi in lodigiano nell'orecchio sinistro "Eh, qui a Simi è così, devi infilarti dentro senza guardare in faccia a nessuno." Dalla banchina una poliziotta panzuta e sudata suona il suo fischietto con una dedizione pari a quella di un muezzin turco durante gli ultimi giorni del Ramadan, prima per cacciarmi, poi per dirmi di lasciare spazio al traghetto che sta per liberare la banchina, poi per invitarmi a calare l'ancora e sbrigarmi perdìo.
Alessandro nel frattempo si è portato avanti, e si è imbucato nell'ultimo posto disponibile non appena lo yacht nel mezzo del porto ha liberato la sua catena ed è scappato verso il mare aperto, come tutti dovremmo fare se solo avessimo tempo di centellinare un attimo di saggezza. Ma non abbiamo tempo, o meglio lo abbiamo ma non è nostro: è in prestito, e una specie di ottenebrante senso di colpa mi attanaglia mentre aspetto. Aspetto, evitando barche, evitando di abbaiare alla poliziotta, evitando di abbordare i Turchi col loro Bavaria che vogliono per forza andare in banchina prima di noi, evitando di spiegare ai più ansiosi del mio equipaggio che il comandante sono io e il Comandante, in manovra, è come il Cavaliere Nero.
MaLa litiga coi Turchi, e ottiene la promessa che faranno andare prima noi. Allora le faccio un cenno e lei cala l'ancora. La caliamo alla nostra maniera, di prua, per essere sicuri di non prendere nessuno e non aver problemi domattina. Quando provo a girarmi con la mia solita manovra alla viareggina (cit. T.) scopro per prima cosa che la Orpheas, nonostante l'elica di prua e il motore da 70 cavalli, ha la reattività di un carrello dell'Ikea stracarico di armadi componibili, la seconda che il Turco - mai fidarsi di un infedele! - non ha tenuto fede alla promessa e sta incrociando la sua catena sopra la mia, subito alla mia poppa, impedendomi di completare il 180° e obbligandomi quindi prima a spostarmi e poi a fermarmi. Mi passa praticamente sopra, e quando provo a completare il mio ormeggio salta fuori anche un harbour master biancovestito - che Iddio possa ricordarsi di lui - che mi urla di aspettare. Aspettare? Ho 50 metri di catena in acqua, un nomade delle steppe mongole a tombarmi l'ancora e un caicco di suoi parenti allevati tra le pecore che fregandosene di tutto e tutti mette la sua firma incrociando in diagonale il suo calumo del 14. Devo aspettare che finiscano, e aspetto. Evitando le barche, le provocazioni e i consigli del mio equipaggio "Eh, a Simi è così, lo sanno tutti, dovevi entrare deciso non guardando in faccia a nessuno". Sono Buddah, nella sua reincarnazione marina, e rimango tale anche dopo aver preso consapevolezza che non sono ancora arrivato e già ho due ancore sopra la mia. Sono talmente calato nel personaggio che quando finalmente metto le cime agli anelli del molo scendo e vado a ringraziare la poliziotta grassa dal grosso fischietto per la sua pazienza. E ne ha avuta, poverina, la bastarda, sotto lo scoppio del sole nella sua divisa blu a pantaloni lunghi, e anfibi.
L'ultimo problema aveva provato a darmelo lo yacht grigio turco dalle dimensioni "vorrei ma non posso", tallonandomi da dietro come se stessi manovrando e dovessi quindi levarmi di mezzo, mentre invece ero all'ancora, praticamente alla ruota, in attesa che finissero di accumulare ferro sul mio calumo.
Il grande Dante avrebbe apprezzato la fine della storia, con il motoscafo che prova a ormeggiare, viene fermato dai fischi della poliziotta, esita un poco e, in quel breve attimo, viene preceduto in banchina da tutti gli altri, che non solo gli fregano ogni posto disponibile, ma calano le loro catene sulla sua condannandolo a rimanere lì, al centro, smarrito.
Anche oggi il sole tramonta lento tingendo di rosa le facciate delle case di Symi. Buddah, sorseggiando la sua birra, osserva con la coda dell'occhio lo yacht grigio e ridacchia divertito dai commenti caustici di Dante. Il loro compagno di sbronze, il Cavaliere Nero, rimane muto ad osservare la luce sfumare lentamente nel buio della sera, finalmente in pace.
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