Siamo in mezzo al mare da ore. Fuori rotta, ci siamo allontanati dalla costa così tanto che forse impiegheremmo meno a proseguire per Rodi che a tornare verso la Turchia. Di poppa piena, abbiamo rallentato la barca il più possibile. Con due mani alla randa e le vele cazzate al centro, quattro nodi erano troppi. MaLa allora ha ammainato il fiocco, mentre io ero indaffarato all'altra estremità della barca, e la velocità è scesa a tre e mezzo. Ci siamo dati il cambio e ho preso un'altra mano, senza cambiare andatura. Ora siamo a due e mezzo. Tre quando siamo spinti dalle onde, nel frattempo montate. Siamo noi e il pesce che ha abboccato a largo di Symi, quattro ore fa.
Lasciato il golfo di Panormitis, dove Apollo ottiene ancora la venerazione dei mortali sotto il nome cristiano di Michele arcangelo, abbiamo accostato a sinistra e, pur nel pieno del pomeriggio, abbiamo deciso di provare a pescare.
Per questo pochi minuti dopo avevamo la canna leggera in acqua, armata con un raglou di pochi centimetri. Qualcosa l'ha divorato con tale violenza da srotolare in pochi secondi tutto il mulinello, e nonostante questo strappare di netto il terminale.
Mentre riarmavo la canna orfana di esca abbiamo messo in acqua l'altra. Questa ha un artificiale della decathlon bianco e rosso, di circa 12 cm. Gli ami, a tre punte, sono dimensionati all'esca, e per mia esperienza leggerini assai.
E così quando mezz'ora dopo ha abboccato qualcosa di indubbiamente grosso ho avuto paura a stringere troppo la frizione: non volevo che il metallo si piegasse donando la libertà al pesce.
Quindi eccoci qua, al tramonto, la costa lontana nella foschia, a riprendere centimetro dopo centimetro. A mollare sulle raffiche, sui sussulti del pesce. E a recuperare di nuovo appena sentiamo, con le mani ormai insensibili, un alleggerimento nella tensione.
Il rocchetto era quasi finito, quando è passata la prima sfuriata: quasi 300 metri di treccia in acqua, dietro di noi. Ora ne mancano forse 50, ma non si vede ancora nulla, e il pesce non si è ancora arreso.
Onda dopo onda, il mare rugoso che si fa grigio come la pelle antica di un dinosauro mentre il sole scende dietro i monti di Symi. Centimetro dopo centimetro, raffica dopo raffica, augurandosi che non ceda proprio ora il cavo, o l'amo, o l'esca stessa. Minuto dopo minuto, dandoci il cambio alla canna, resistendo alla tentazione di stringere la frizione appena un poco, e di tirarlo a bordo di forza. Centimetro dopo centimetro, sperando che che non si sciolga il nodo di sangue del terminale, o quello, senza nome, che stringe il nylon all'esca.
E quando ormai ci si vede appena, ecco nella schiuma della cresta dell'onda più vicina la nostra preda: un'alalunga, femmina, di quasi dodici chili. Lo tiriamo a bordo senza che riesca più a opporsi. C'è un'altra ombra, a poppa, la vediamo distintamente. Un altro tonno? Uno squaletto? MaLa, romantica, ha un singhiozzo disperato al pensiero che forse si tratta del compagno della tonna, arrivato sottobordo per accompagnarla nell'ultimo viaggio. Mi è capitato già altre volte, di tirare su un tonno e di vedere un'altra ombra danzare inquieta proprio sotto la poppa, e non so. Non posso escluderlo, come non posso escludere che il suo simile stia solo aspettando la sua manifesta debolezza per assaggiarne la carne. Ma sono indurito dalla stanchezza e dalla preoccupazione di dove finiremo per passare la notte, e minimizzo, deciso a tagliar corto ogni discorso, sentendomi un insensibile truffatore.
Insensibile si deve essere, se si decide di cacciare in mare. Così trafiggo il bel pesce col raffio, lo carico sulla plancetta, gli lego salda la coda e gli spacco la testa a colpi di mannaia. Poi con la stessa lama gli apro la pancia, metto da parte le uova, butto via il resto e, per ultimo, lo lascio in acqua a scolare.
Finiamo per entrare a Serce Limani col buio. La carta segnala scogli sulla sinistra dell'ingresso, per cui vado lungo e poi risalgo lungo la costa orientale del canale di accesso. Dentro, per quel che intuiamo tra le tenebre, è pieno di barche. Alcune alla fonda, altre cime a terra. Altre ancora a luci spente, invisibili fino al momento in cui MaLa, a prua, me le illumina con la torcia. Cerchiamo una boa libera e, incredibilmente, quando oramai stiamo per darci per vinti - il che significherebbe riprendere il mare a arrivare fino a Ciftlik, a tre ore di navigazione - la troviamo. L'ultima.
La notte è accogliente, qui. Mille mille stelle avvolgono il cielo di seta, e l'odore tiepico della terra arriva a dolci folate dai monti coperti di timo. Le cicale si riposano sui pini, e solo le chiacchiere dei pescatori turchi arrivano, dal piccolo molo di legno, amplificate dalle alte pareti di roccia del fiordo. Con un ultimo sforzo quarto la tonna, cercando di farla entrare nel frigo. Un bistecca alta tre dita la lascio fuori, per rendere onore alla nostra preda. Poi, stremati, dormiamo.
Stamattina, riponendo la canna nell'abbacinante luce del sole turco, esamino gli ami. Hanno ceduto entrambi, sbilenchi. Se avessi stretto anche solo un altro millimentro la frizione avremmo perso il pesce, e l'intero pomeriggio.
Lasciato il golfo di Panormitis, dove Apollo ottiene ancora la venerazione dei mortali sotto il nome cristiano di Michele arcangelo, abbiamo accostato a sinistra e, pur nel pieno del pomeriggio, abbiamo deciso di provare a pescare.
Per questo pochi minuti dopo avevamo la canna leggera in acqua, armata con un raglou di pochi centimetri. Qualcosa l'ha divorato con tale violenza da srotolare in pochi secondi tutto il mulinello, e nonostante questo strappare di netto il terminale.
Mentre riarmavo la canna orfana di esca abbiamo messo in acqua l'altra. Questa ha un artificiale della decathlon bianco e rosso, di circa 12 cm. Gli ami, a tre punte, sono dimensionati all'esca, e per mia esperienza leggerini assai.
E così quando mezz'ora dopo ha abboccato qualcosa di indubbiamente grosso ho avuto paura a stringere troppo la frizione: non volevo che il metallo si piegasse donando la libertà al pesce.
Quindi eccoci qua, al tramonto, la costa lontana nella foschia, a riprendere centimetro dopo centimetro. A mollare sulle raffiche, sui sussulti del pesce. E a recuperare di nuovo appena sentiamo, con le mani ormai insensibili, un alleggerimento nella tensione.
Il rocchetto era quasi finito, quando è passata la prima sfuriata: quasi 300 metri di treccia in acqua, dietro di noi. Ora ne mancano forse 50, ma non si vede ancora nulla, e il pesce non si è ancora arreso.
Onda dopo onda, il mare rugoso che si fa grigio come la pelle antica di un dinosauro mentre il sole scende dietro i monti di Symi. Centimetro dopo centimetro, raffica dopo raffica, augurandosi che non ceda proprio ora il cavo, o l'amo, o l'esca stessa. Minuto dopo minuto, dandoci il cambio alla canna, resistendo alla tentazione di stringere la frizione appena un poco, e di tirarlo a bordo di forza. Centimetro dopo centimetro, sperando che che non si sciolga il nodo di sangue del terminale, o quello, senza nome, che stringe il nylon all'esca.
E quando ormai ci si vede appena, ecco nella schiuma della cresta dell'onda più vicina la nostra preda: un'alalunga, femmina, di quasi dodici chili. Lo tiriamo a bordo senza che riesca più a opporsi. C'è un'altra ombra, a poppa, la vediamo distintamente. Un altro tonno? Uno squaletto? MaLa, romantica, ha un singhiozzo disperato al pensiero che forse si tratta del compagno della tonna, arrivato sottobordo per accompagnarla nell'ultimo viaggio. Mi è capitato già altre volte, di tirare su un tonno e di vedere un'altra ombra danzare inquieta proprio sotto la poppa, e non so. Non posso escluderlo, come non posso escludere che il suo simile stia solo aspettando la sua manifesta debolezza per assaggiarne la carne. Ma sono indurito dalla stanchezza e dalla preoccupazione di dove finiremo per passare la notte, e minimizzo, deciso a tagliar corto ogni discorso, sentendomi un insensibile truffatore.
Insensibile si deve essere, se si decide di cacciare in mare. Così trafiggo il bel pesce col raffio, lo carico sulla plancetta, gli lego salda la coda e gli spacco la testa a colpi di mannaia. Poi con la stessa lama gli apro la pancia, metto da parte le uova, butto via il resto e, per ultimo, lo lascio in acqua a scolare.
Finiamo per entrare a Serce Limani col buio. La carta segnala scogli sulla sinistra dell'ingresso, per cui vado lungo e poi risalgo lungo la costa orientale del canale di accesso. Dentro, per quel che intuiamo tra le tenebre, è pieno di barche. Alcune alla fonda, altre cime a terra. Altre ancora a luci spente, invisibili fino al momento in cui MaLa, a prua, me le illumina con la torcia. Cerchiamo una boa libera e, incredibilmente, quando oramai stiamo per darci per vinti - il che significherebbe riprendere il mare a arrivare fino a Ciftlik, a tre ore di navigazione - la troviamo. L'ultima.
La notte è accogliente, qui. Mille mille stelle avvolgono il cielo di seta, e l'odore tiepico della terra arriva a dolci folate dai monti coperti di timo. Le cicale si riposano sui pini, e solo le chiacchiere dei pescatori turchi arrivano, dal piccolo molo di legno, amplificate dalle alte pareti di roccia del fiordo. Con un ultimo sforzo quarto la tonna, cercando di farla entrare nel frigo. Un bistecca alta tre dita la lascio fuori, per rendere onore alla nostra preda. Poi, stremati, dormiamo.
Stamattina, riponendo la canna nell'abbacinante luce del sole turco, esamino gli ami. Hanno ceduto entrambi, sbilenchi. Se avessi stretto anche solo un altro millimentro la frizione avremmo perso il pesce, e l'intero pomeriggio.
Il suo punto di vista, però, sarebbe sicuramente stato diverso.
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