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Il panino


Proprio un paio di giorni fa ero seduto ad un tavolaccio di plastica ai piedi della rocca di Scilla. La signora del chiosco mi aveva consigliato la sua specialità: panino con pesce spada, pomodori, capperi e chissà cos'altro, e io l'avevo gustato mugolando di piacere a pochi metri dal mare. Sullo sfondo, oltre i gozzi dei pescatori a secco sullo scivolo, oltre i corti moli del porto, la Duna beccheggiava alla boa, impaziente di iniziare una nuova navigazione. Che bontà, quel modesto panino appena fuori da Chianalea coi suoi bed and breakfast gremiti di tedeschi e i suoi ristoranti i dai nomi altisonanti!

Oggi, poco meno di 24 ore dopo essere salpato da Scilla, sono ancora in mare. L'idea originaria era quella di arrivare a Cetraro e, data la velocità media cui spingo di solito scelleratamente la Duna, grosso modo 4 nodi, contavo di essere lì nel primo pomeriggio. Sennonché gli eventi hanno deciso diversamente. Intanto ieri, all'altezza di Bagnara Calabra, è entrato un vento al traverso niente male, che con tutta la tela a riva (e ho dovuto scarrellare abbondantemente ad un certo punto) mi ha spinto verso nord a velocità smodata. Poi, all'altezza di Capo Vaticano, un altro mondo: tre fronti d'onda contemporanei, vento che ridonda e poi salta di 90° così, in un lampo. Ed io a seguire con le vele. Ammaina la randa e lascia il genoa, ammaina il genoa e tira su la randa, prepara il fiocco medio... Ecco, quest'ultima mossa, a posteriori azzeccatissima, me l'hanno suggerita due considerazioni. 1) "Quest'onda che m'arriva da prua mente il vento ce l'ho di poppa, da qualche parte avrà pure origine" 2) il Golfo di S. Eufemia è il corrispondente Tirrenico di Squillace, e se funziona in un senso...
E infatti, tra mare confuso e onda in aumento, ecco che di punto in bianco mi sono ritrovato di bolina, e la barca si è stabilizzata, e ha preso a tagliare rapida la schiuma sotto il chiaro di luna. Le Pleiadi erano alte, e timonando seduto sottovento, mura a dritta, ho assistito muto al glorioso sorgere di Orione. La Duna va, va, va... e stamattina alle 10 ero già al traverso di Cetraro.
Che ci faccio a Cetraro alle 10 di mattina, penso? Una giornata sprecata. E ho tirato dritto, verso Porto Infreschi. Mentre andavo su, il vento è calato, poi ha girato, poi sembrava montare di nuovo ma no, niente da fare, ho messo via il genoa (sì, era di nuovo lui ingarrocciato allo strallo) e tenuto la randa a farmi ombra. Nel frattempo la meta era cambiata di nuovo: Marina di Camerota. Cambusa, contatti umani, gasolio. Banchina, sonno immediato e profondo e, non ultimo, transito gratuito al molo di sottoflutto.

In realtà,  però,  il succo del discorso è tutto un altro. Ho la lenza a mollo. In fondo alla lenza un nuovo artificiale, visto che il vecchio, quello che aveva fatto sfracelli alle Ioniche intrecciando il filo attorno a pulpito, timone, elica ed eolico, ha finito i suoi giorni in bocca a un qualcosa di grosso e cattivo che l'ha rapito negli abissi nel centro del Golfo di Squillace. Traduzione: non mi sono affrettato a sventare tutto per ridurre la velocità e un pesce (suppongo molto grosso) al terzo strattone ha rotto la lenza all'altezza del nodo.
La lenza è a mollo da stamattina, ma è strano che, proprio mentre, pigramente sotto il cocente sole pomeridiano, a circa 12 miglia dall'agognata meta, ripenso alla opportunità di aver comprato una latta da 5 litri di olio greco in previsione di un'altra cattura, dato che non ho mai pescato nulla a nord delle Eolie e ormai le ho bell'e saltate, proprio in quel momento la canna si flette e il mulinello sgrana.
Stavolta non mi faccio fregare e invece di preparare raffio, secchio, coltello guanti e compagnia bella, neanche stessi uscendo per la spesa al mercato, mi dedico subito al pesce. Impugno la canna, controllo che sia ferrato e immediatamente riduco la velocità.  Preso.

Comincio a recuperare. Viene su facilmente. Certo non facilmente come il maccarello catturato lungo la costa calabra: quello non mi ero neppure accorto di averlo all'amo, e me lo sono trascinato dietro per chissà quanti mari prima di far caso alla sua presenza, nel tirare su la traina in previsione del traffico dello Stretto. Ma, del resto, tutto si può dire di me tranne che io sia un pescatore provetto.
Viene su con poco sforzo, dicevo. È un pesce piccolo (lo sapevo che questo artificiale preso in emergenza ad Argostoli il giorno prima di partire in convoglio verso Messolonghi era una sòla, penso). Poi però vedo le pinne, abbastanza sviluppate. La solita alalunga, dico tra me e me: ora vedrai, fa resistenza gli ultimi 30 metri. Ma le pinne spariscono, e non riesco ad immaginarmi in quale posizione possa essere la mia preda mentre la recupero.
Però avvolgo la lenza, e lei si avvicina. Qualche strattone ogni tanto, ma poca roba. Fino a che ce l'ho a nemmeno 10 metri, e lui comincia a boccheggiare fuori dall'acqua. Ha un qualcosa sul muso. Qualcosa di allungato. Ma no, non può essere. Cercando di tenerlo in acqua, voglio farlo respirare, scatto una foto e la mando a Daniele: "Che pesce è e, soprattutto, che ci faccio?". Daniele, persona di cui mi fido anche oltre la pesca, se non altro perché ha amato la Duna prima di me, pretende che rifaccia la fotografia tirandolo fuori dall'acqua. Il che non è facile, perché appena ci provo allora sì che scalpita, l'animale. Alla fine ci riesco, e il rapido verdetto mi trova preparato: una volta avvicinato sotto la barca ogni dubbio è sparito, la sagoma diventata inconfondibile. Più che la sagoma, la spada.
Insomma, per farla breve, ho preso all'amo un pesce spada di 60, forse 70 cm di lunghezza fuori tutto. "È un cucciolo, devi liberarlo" e già, lo pensavo anche io. Ma come si fa? Gli chiedo se per favore smette di agitare quei trenta centimetri di coso tagliente mentre delicatamente mi sporgo fuori bordo e gli strappo via l'amo dalle carni?
Nel frattempo ho Daniele al telefono. Ha preso a cuore la faccenda. Si susseguono domande e risposte. Proposte, tentativi.
Ovviamente non posso tirarlo su col raffio, anche se ammetto che sarebbe la soluzione più semplice: avrebbe poco senso liberarlo dopo averlo ammazzato. Provo con il retino, ma lui giustamente fa di tutto per non finirci dentro.
"Ma non è sfiancato?" la domanda al telefono. Decisamente no. Sta lì boccheggiante, con l'occhio piccolo da predatore ("Se cadi in mare me te magno io" starà cercando di dirmi), sembra passivo e poi, tirato mezzo fuori dall'acqua, comincia a guizzare agitando freneticamente il suo minaccioso fattapposta.
"E se taglio la lenza?" chiedo. Risposta negativa, con quel coso lì in bocca morirebbe di fame. Allora lo tengo alla traina e lo nutro io, lo allevo fino a quando diventa grande e un bel giorno spezza di forza ogni legame e va per la sua strada - e io che gli avrò sacrificato gli anni migliori della mia vita. Scartata anche questa ipotesi, non so nemmeno quanto tempo impiega un pesce spada a diventare adulto ed andare per la sua strada tra l'altro, faccio tutto quanto NON si deve fare per pescare un pesce. Fermo la barca, do lenza e la lascio in bando. Aspetto, la ritiro su. Col pesce attaccato.
"Occhio che sei solo a bordo: se ti sgarra una mano come ce la riporti la barca a casa?" la giusta raccomandazione al telefono. E io, cambiando strategia, rigiro il problema alla mia preda, sperando così di fiaccarla moralmente: "Hai sentito? Se proprio uno di noi due deve farsi male, è meglio sia tu".
Me la porto vicino, scendo sulla plancetta e tento di torcere l'amo col raffio, dalla parte curva, apostrofando nel frattempo l'animale con frasi rassicuranti del tipo "Fai fare a me" o "Non ti agitare", "Stai fermo, ho detto" oppure, ricordando Ivan, il Cinese di Piazza Vittorio da cui mi son fatto torturare i piedi con un punteruolo di legno, tempo fa, "Ora male, poi bene". Niente da fare, lui non  si sente rassicurato (neanche io lo ero a Piazza Vittorio, in effetti), non collabora, e tenta anzi di sfuggire non appena avvicino al suo rostro il mio acciaio. Stupido pesce.
"Ma non è che muore?" faccio io al il mio consulente per le attività ittiche che continua a seguire in tempo reale la pratica. "Se muore te lo magni"  la risposta prosaica.
Ma poverino, è un cucciolo... e poi "Danie', ma come lo cucino, che in pentola non c'entra e il forno m'hai dato la sòla che non funziona?" e così via, a vele molli nella bava di vento al largo del Golfo di Policastro. 
Il cucciolo resiste, e io non ho davvero cuore di infilarlo di raffio e far finta di niente. All'ennesimo tentativo col coppo, però, lui sfugge ancora ma l'artificiale si imbroglia nella rete. Geniale, se solo l'avessi fatto apposta. Viene su sfiduciato, la spada completamente imprigionata. Delicatamente, poggio la punta di un piede sulla sua coda, per immobilizzarlo, e quella dell'altro sul rostro. Poi estraggo l'amo che, c'è da dire, aveva fatto il suo sporco lavoro, lo prendo per la coda con la sinistra, lo sollevo.
Lui non si muove, stremato.
Mentre lo tiro su mi torna in mente il panino di Scilla. La carne soda, bianca, profumata...
Lui non si muove: lo guardo con sospetto e gli dico "Oh, non sarai mica morto, proprio adesso?". Probabilmente lui coglie l'alito di speranza nel mio tono di voce, mi strizza l'occhio fingendo disinvoltura e mi fa "Lascia stare, ciccio, sto benissimo, anzi mai sentito meglio, yeah! Solo avrei un appuntamento e sto facendo tardi: se non ti dispiace..."
Lo lascio cadere nel suo elemento. Col cavolo che sta bene, rimane lì panza all'aria poverino. Dopo qualche secondo, però, si rigira dritto, si liscia i capelli e senza nemmeno un Grazie se ne torna giù da dove è venuto.
"Quando sarà il momento, ricordati degli amici!" gli grido dietro.
E poi tra me e me, tornando alle mie vele, "ciao ciao, Panino".


Commenti

  1. GrandeCarlo! Nobile gesto e solito bel racconto.

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  2. QUESTA ME L'ERO PERSA.....RECUPERATA OGGI IN UFFICIO !!

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