I mesi passano, ma il
ricordo di quest'estate rimane vivido nella memoria. Non c'è stato
un momento speciale in tutte le 1315 miglia che a Civitavecchia hanno
legato Santa Teresa, Mahon, Palma, Barcellona, Marsiglia, Nizza,
Menton, Capo Corso, l'Elba il Giglio e Giannutri per tornare, infine,
di nuovo a Civitavecchia. O forse tutti i momenti, ogni singolo
attimo è stato speciale. Ogni singolo miglio, ogni metro scavato tra
le onde, ogni onda stessa, sonora sullo scafo, ogni minuto di luce,
il sole che ci accompagnava instancabile da est verso ovest
incantandoci ogni giorno con colori strazianti. Ogni nuvola foriera
di buoni venti o venti di tempesta, ogni calma surreale - mare e
cielo fusi in una lastra di liscio marmo azzurro - ogni cambio di
vela notturno.
A ovest, sempre più a
ovest. Ridossandoci dalle burrasche, cucendo le vele strappate,
rizzando l'attrezzatura affaticata. Svegliandoci di notte a
controllare la tenuta delle ancore. Un turno dopo l'altro, il
binocolo pronto a scrutare l'orizzonte a indovinare navi e rotte
altrui. Nel caldo del giorno, nell'umido della notte. Sotto la
pioggia schivando groppi e lampi. E ancora nella calma del ridosso,
l'ancora dal lungo calumo sicura che agguanta il fondale: il riposo,
meritato, conquistato. Sono vivo.
Per prima c'è stata
Mahon. Arriviamo cavalcando lo onde dell'ultima notte. Il vento ha
rinforzato nel primo turno di guardia, e prima di ritirarsi in cabina
Francesco mi aiuta ad ammainare il genoa e issare a riva il fiocco.
Nonostante la riduzione, la randa smagrita al massimo porta ancora
troppo, e allora sono io che mi avventuro nel buio fino all'albero a
prendere una mano di terzaroli, la barca sbandata di bolina larga che
corre verso Mahon a sei nodi e mezzo.
Nel mio turno avvistiamo
le prime luci. I primi fari di Minorca. Più tardi resterò sveglio
oltre le mie ore a cercare di capire la nostra posizione in base ai
rilevamenti, fino a scoprire che gli Spagnoli hanno piazzato due fari
identici sulla stessa costa, dei quali uno, quello della Mola,
spento!
La soddisfazione di
arrivare in porto dopo quattro giorni di mare aperto. La magia di
Mahon, del canale d'accesso al bacino del lazzaretto, scivolando a
vela, silenziosi, a pochi metri dalle antiche mura del forte. Alla
fonda in un ridosso perfetto, e poi la cittadella, di notte, alta sul
suo fiordo. E la cameriera del bar sul molo, la cui maestosa e
noncurante bellezza rimane impressa a tutti noi quattro, donne
comprese.
A Palma arriviamo col
solo genoa spinti da un vento fresco al giardinetto. Francesco al
timone che, già triste perché lui e Serena dovranno imbarcarsi di
qui a poche ore su un aereo diretto a casa, reagisce governando la
barca al limite e cercando – ovviamente invano: sette tonnellate di
scafo a spigolo – di surfare le onde. Io occupato da ore a
rinforzare le cuciture della penna della randa, preoccupato che nulla
si rompa nonostante la furia del timoniere, conscio che in una barca
di trent'anni qualsiasi pezzo può improvvisamente decidere che è
arrivata la sua ora: pochi giorni prima entrando a Fornells un
candeliere ha ceduto senza particolare motivo, in seguito – ancora
non dovrei saperlo, certo, ma mi sia concesso di mescolare i ricordi
a mio vantaggio - in Costa Azzurra un golfare si rivelerà
completamente consumato laddove entra - nascosto - nella coperta, e tra pochi
giorni a Barcellona dovrò sostituire i due bozzelli che rinviano in
pozzetto le scotte del genoa, i cui rinforzi in acciaio scopro minati
da preoccupanti cricche.
A Barcellona fatichiamo a
trovare il varco che, dal lunghissimo frangiflutti esterno, permette
l'accesso alle banchine del diporto. Alla fine scorgiamo la torretta
del fanale rosso, ci avviciniamo e, come per magia, alla nostra
dritta i massi del braccio di sovraflutto scivolano verso mare
lasciando libero il passo. Dentro caldo e meduse. Arriviamo alle 13
di un sabato: nessuno sulle banchine, niente ormeggiatori, una voce
stanca alla radio ci indica un molo e un numero. Lo capiamo male e
facciamo avanti e indietro più e più volte scrutando le cifre
scrostate sul cemento del molo, tra un finger e l'altro. Il 21 non
c'è. Richiamiamo al VHF, arriva la Risposta: il nostro posto è il
42!
Ormeggiamo. Le cime ce le
prendono i nostri vicini: un belga e un italiano con una barca a
spigolo in acciaio, immatricolata Roma, che da lontano mi sembra
tanto un Serenity ma non lo è.
A Marsiglia ci dirigiamo
comunque al Port Vieux dopo che per telefono ci hanno avvertito che
non potremo restare più di una notte: c'è la regata e i pontili
saranno pieni. È sera, e accostiamo al molo di accoglienza del
Circolo Nautico. Dormiamo lì, dopo aver spruzzato abbondante wd40
sulle molle di ormeggio dei vicini per arrestarne l'instancabile
cigolio. La mattina vado a parlare con la Capitaneria: niente posto.
Torno al Circolo (un viaggio di 10 metri), e casualmente entro in
segreteria per la registrazione prima dell'orario di apertura: la
ragazza con cui avevo parlato ieri non è ancora in servizio, e mi confronto con un paio di ormeggiatori. Per loro non è nemmeno concepibile
ricacciarmi in mare con queste previsioni: il mistràl incombe - e
qui quando si parla di mistràl s'intende quello con la "m"
maiuscola, quello che poi esce potente dal Golfo a ingrossare il
Mediterraneo fino a Malta. Ci trovano un posto che non sarebbe
proprio un posto, ma che ci permette di restare, e ci aiutano a
rinforzare gli ormeggi.
Quando arriva la
segretaria, una rossa magra, curva ed elegante, la sentiamo
protestare per il favore concessoci contro la sua volontà. Vince
l'Ormeggiatore e il buon senso: non si può prendere il mare oggi.
Più tardi mi chiedono di
cambiare posto e di accostarmi alla banchina di pietra. Lo faccio da
solo, tonneggiandomi sulle cime, non ho bisogno di aiuto, il che mi rende
vagamente (scioccamente) orgoglioso. La mia soddisfazione trova conferma
nell'approvazione dell'ormeggiatore che al ritorno dalla pausa pranzo
trova già tutto sistemato e nella diversa espressione con cui la roscia mi guarda quando incrocia il mio sguardo. Secondo Manuela
subisce il mio “fascino”. Fascino alla Moitessier alla fine della
sua circumnavigazione, forse, dato che da un mese non uso un rasoio,
un pettine o un ferro da stiro, e che la barca è piena di toppe di
nastro americano a sigillare - con scarso successo, le vie d'acqua
degli oblò mal istallati.
Le vele sono rizzate alle
draglie. La randa serrata al boma. Piove, ma infine l'atteso mistràl spazza via
tutte le nubi ed entra potente, sollevando frangenti nel bacino
portuale. La barca bolina senza tela tenuta in posto dai cavi di
ormeggio. Il vicino è un charterista tedesco che ha una sola
settimana a disposizione e vede la sua vacanza sfumare ora dopo ora.
Un altro tedesco entra con la sua barca e dà spettacolo rischiando
di stamparsi su ognuno degli scafi presenti davanti alla sede del
circolo - tranne la Duna troppo defilata - sfiorandoli tutti nelle
sue evoluzioni strapazzato dal vento, senza toccarne nessuna. Un
pazzo, o un fenomeno. Alla fine lo placcano in dieci al molo di
accoglienza. Con un suo amico che si è agitato per tutto il tempo in
ritardo di un paio di secondi - riuscendo così a
presidiare sempre la murata sbagliata - sono entrati senza nemmeno mettere un
parabordo. Il Giapponese del 15 metri tira un sospiro di sollievo, e
riprende a guardare lontano e a sorseggiare vino rosso dal calice di cristallo.
Sfiliamo veloci tra le
Porquerolles e la costa inseguiti da lampi e groppi di vento,
protetti dalle nuove cerate comprate appositamente al Decathlon di
Marsiglia. Due notti all'ancora, la prima da non ripetere, ormeggiati
nel buio a poche decine di metri dal molo di sopraflutto di Sanary
Sur Mer - il porticciolo è pieno come un uovo - fidandoci solo
dell'ecoscandaglio, della carta e delle poche altre barche già
presenti. La seconda, splendida, alla Plage de l'Estagnol, in fondo
alla rada di Hyeres, tra una spiaggia bianca e, in lontananza, il castello di Cap de Bregancon a picco sul mare.
A Saint Tropez ci
cacciano dal porto appena si accorgono che il nostro sangue non è
blu e il nostro portafoglio è in rosso, così ancoriamo appena fuori
dalle boe che delimitano il canale di accesso e scendiamo a terra in
tender. Il tempo di fare cambusa e siamo di nuovo in partenza, per
scoprire che ho agganciato con le marre l'intera catenaria delle boe
di segnalazione. In 16 metri di fondo liberarci è un impresa, ma con
una gran tigna e le maledizioni di rito riusciamo ad uscirne.
A Nizza entriamo di
soppiatto al crepuscolo. Anche qui le banchine del Circolo sono tutte
occupate per le prossime regate, pare, ma noi abbiamo un
pellegrinaggio dovuto al Cafè de Torino, e il pensiero delle
ostriche che ci aspettano ci commuove a tal punto da renderci audaci:
ostentando grande sicurezza adocchio il molo del benzinaio e mi ci
piazzo senza esitazione. Questo pareggia in parte le delusioni incontrate qui in Costa Azzurra dove finora, nonostante sia
settembre decisamente avanzato, non siamo riusciti a trovare un porto
accogliente.
E poi, dopo un
rifornimento a Menton, pochi metri prima della frontiera e delle
patrie accise, la prua a sud verso Capo Corso, il vento che cala poco
prima del tramonto e lo sciame di libellule che ci assale a metà
della notte, una breve sosta tecnica a Macinaggio, un bagno a
Fetovaia, la visita alla Coop di Marina di Campo, la partenza
all'alba verso il Giglio – ormai quasi una consuetudine, come la
successiva notte al Campese – il pranzo a Giannutri e ancora via
verso Sud, verso Civitavecchia da raggiungere prima che entri il
libeccio. L'arrivo col buio, zigzagando tra le enormi navi da
crociera che entrano ed escono dal porto commerciale a quest'ora
della notte, la randa che non vuole scendere proprio davanti
all'imboccatura di Riva di Traiano. Il rientro. Mio padre in banchina
che ci lancia la cima, sale a bordo, stappa la bottiglia di vino
rosso e mi accompagna nel vuotarla ascoltando i racconti del lungo
viaggio, per poi ritirarsi discretamente augurandoci un buon
(meritato) riposo.
I mesi passano, ma il
ricordo di quest'estate rimane vivido nella memoria, anche se non c'è
stato un momento speciale in tutte le 1315 miglia che a Civitavecchia
hanno legato Santa Teresa, Mahon, Palma, Barcellona, Marsiglia,
Nizza, Menton, Capo Corso, l'Elba il Giglio e Giannutri per tornare,
infine, di nuovo a Civitavecchia: o forse tutti i momenti, ogni
singolo attimo è stato speciale.
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