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La resa

Terza ed ultima puntata
con la quale si conclude il racconto delle mirabolanti gesta della Duna e del suo equipaggio

Il racconto si era interrotto con i nostri quattro eroi duramente affaticati da un piatto di rigatoni, in calma di vento, all'uscita del canale tra Argentario e Giglio.
Gli eventi si sono succeduti in seguito con tale lentezza che difficilmente qualsiasi resoconto scritto, per quanto prolisso e noioso, potrà rendere appieno l'assoluta mancanza di adrenalina e di spirito sportivo necessari per affrontare le miglia residue. Che, per inciso, erano ben più della metà. 

Potrebbe forse interessare il lettore che, non appena cambiato per l'ennesima volta il genoa con il fiocco, il vento tornò da maestrale in barba ad ogni previsione e ad ogni tattica elaborata a bordo o suggerita dal nostro "uomo ombra"?
Potrà forse avvincerlo il racconto del mio turno di riposo, coincidente esattamente con le uniche due ore in tutta la nottata in cui la Duna corse spinta da un vento gagliardo, sbandata su un fianco, picchiando la prua nel cavo dell'onda? Non so se basterebbe a tal fine impreziosire la cronaca di particolari, come quello che, illanguidito dalla notte placida, avevo scelto per il mio riposo la cuccetta più comoda: quella di prua, a dritta (la sinistra ingombra di vele), la più adatta, a posteriori è facile ammetterlo, all'osservazione scientifica di una lavatrice in centrifuga, dall'interno, lato sopravvento. 

È forse superfluo aggiungere, i più maliziosi l'avranno già intuito, che appena riemerso dall'abbraccio con la vergine di Norimberga di prua per il mio turno al timone, dando in questo il cambio a mio padre, il vento cessò del tutto, e ci ritrovammo a dondolare nel mare lungo su un'acqua che rifletteva la luce di ogni stella della via Lattea. 

Qualcuno potrà bearsi della visione romantica della Duna con tutta la tela a riva, cullata dolcemente al largo delle scogliere di Capel Rosso, col nocchiere che languido appoggia il capo al braccio reclinato sotto al corpo, sulla panca di sinistra, guardando rapito le stelle. In realtà il buio della notte nasconde il filo di saliva che collega le sue labbra, schiuse al ronfare, con il tek consunto della panca. Ma lui non ha colpa: chiunque potrà confermare che è l'umido della notte ad appesantire le palpebre anche del più intrepido dei timonieri, così come sigilla le ali alla più leggiadra delle libellule. 

E che dire del momento simbolo, quello più atteso, quello del giro di boa, quando al VHF lanciamo nel vuoto il nostro messaggio:  "Duna è al traverso del faro di Capel Rosso, se qualcuno ancora riesce a sentirci: non ve magnate tutto!"  Silenzio. E in effetti, anticipando i tempi, posso già da ora svelarvi che mai chiamata radio fu più azzeccata, visto che si erano davvero mangiati tutto, al nostro arrivo. 

E poi le ore di vela più intensa, quelle con la falchetta in acqua e le sartie sottovento in bando, di quando davvero è arrivata la ormai inattesa e soprattutto, ora, inopportuna rotazione a est, a trasformare anche il viaggio di ritorno in un infinito bordeggiare di bolina. Secchiate e secchiate d'acqua sul prodiere intento a ridurre la tela, mentre il resto dell'equipaggio riusciva miracolosamente a ronfare aggrappato con le unghie alle cuccette del quadrato. E ancora, con la barca più stabile e più manovriera, le regolazioni di fino sulla rotta del pilota automatico: il tattico scruta le onde, cerca di leggere il vento tra le scie di schiuma, il suo sguardo spazia fino all'orizzonte, avido di anticipare possibili raffiche. Poi, dopo qualche secondo di silenzio, in cui con intelligenza ed esperienza valuta ogni possibilità, ecco che si rivolge al timoniere: "-3, andiamo a stringere il vento". Il timoniere ubbidisce prontamente premendo per tre volte il tasto dell'autopilota, e la barca docile orza. Il timoniere, che nel rincoglionimento del primo mattino ha appena premuto per tre volte il tasto "-10" invece del più sobrio "-1", fatica a comprendere quale sia il motivo per cui le vele sbattono. Per di più nelle frazioni di secondo immediatamente seguenti nessuno sembra intenzionato a cazzarle, anzi c'è chi addirittura sta palesemente liberando le scotte come preparandosi ad una virata. Poco prima che il fiocco prenda a collo si squarcia il velo di Maya e il messaggio che tutti da un po' stanno gridando arriva a destinazione: "poggia!!!" E lui riprende il controllo del timone e lo ruota con decisione a dritta. La barca ha ancora un minimo di abbrivio - e le onde che violente colpiscono il mascone la aiutano - e recupera la rotta di bolina ma, non paga, continua ad allargarsi. L'equipaggio segue come può lascando ora freneticamente le scotte e poi, dopo il traverso, prevedendo il peggio, recuperandole con eguale frenesia. Al lasco un provvidenziale ammutinamento esautora il timoniere e ristabilisce l'ordine. E reinserisce l'autopilota.  

Ma nulla poteva fiaccare la volontà di ferro dell'equipaggio, deciso ad arrivare ad ogni costo in tempo per il buffet. Né il vento beffardo, né l'onda schiumosa, né i capricci del timoniere di turno. Come un sol uomo incitavamo la barca a solcare il mare pescoso (a proposito, alla traina non s'è preso una sega), come un sol uomo alavamo sul winch la scotta del fiocco. Come un sol uomo pucciavamo i frollini al cacao nel caffellatte, cercando nel contempo di evitare che la tazza si empisse di schiuma marina.
Solo un nemico poteva sconfiggerci, e solo lui, al fine, ci sconfisse: la bafagna. 
La incontrammo al traverso di Tarquinia. Ma facciamo un passo indietro.

Vento da ENE, mare vivo, in aumento, al mascone di sinistra. Con tutta la buona volontà, anche neutralizzando i tentativi di sabotaggio non riusciamo a stringere abbastanza per arrivare a Civitavecchia con un unico bordo.
Si apre allora un dibattito sull'argomento “Come girerà il vento”. Le posizioni sono essenzialmente due. La prima sostiene che probabilmente rimarrà così fino a Riva di Traiano, e che quindi conviene fare un bordo per avvicinarsi a terra e trovare onda meno fastidiosa. Fervente sostenitore della seconda, io ipotizzo invece che scendendo verso la chiusura dell'ampia apertura di Montalto e Tarquinia il vento ruoterà a sinistra, permettendoci di correggere la rotta ed arrivare al traguardo sulle stesse mura. Come opzione B della stessa ipotesi aggiungo la possibilità che il vento salti a SE: in ogni caso non conviene perdere tempo ad avvicinarsi a terra.
La discussione è molto civile ed educata, e mentre avanziamo attraverso le creste sempre più frequenti prende corpo una terza soluzione, di compromesso: “ma che ci frega”, che sostiene in pratica che è inutile incasinarsi a cambiare bordo quando non siamo nemmeno d'accordo sull'effetto desiderato, soprattutto ora che il caffellatte è ancora caldo.
Per dimostrare che la scelta fatta è la migliore prendo io il timone, disinserendo il pilota automatico, dichiarando baldanzoso: “ora proviamo a stringere il vento”.

Guardate con quale perizia il timoniere affronta le onde, con quale sicurezza sfrutta le raffiche! Lo sguardo che spazia lungo l'orizzonte il mare canuto, orza e poggia in sincronia con gli elementi della natura, conscio che “non puoi controllare il vento, ma puoi aggiustare la rotta e mettere a segno le vele”. Che cavalcata, io e la Duna come un solo corpo che dalla cima dell'albero piegata sottovento giù lungo le sartie, le lande, attraverso i bagli possenti e i miei muscoli instancabili si protendeva giù nelle acque spumose solcate dalla pinna di deriva, separate dalla lama del timone!
Dopo dieci minuti dovetti ammettere che sì, la prua stringeva il vento, ma tra velocità ridotta e scarroccio accentuato, per non parlare di quanto frequentemente io riuscissi a fermare la barca quasi al vento, la rotta vera era in realtà più larga di prima. Fingendo disinteresse, ho buttato là qualche scusa del tipo “vado a controllare il tracking, chissà se siamo ancora ultimi?” e ne ho approfittato per reinserire il pilota automatico e sparire sottocoperta.

Ma nulla ha potuto il nostro servonocchiere di fiducia quando il vento, invece di ruotare, ha cominciato semplicemente a scemare. Sparisce lentamente, poco a poco, mettendo in serio imbarazzo la nostra pigrizia che ci impedisce di aggiustare la velatura fino a che la nostra immobilità non si fa vergognosamente palese e il nostro intimo senso di colpa insopportabile. Via la prima mano alla randa, mezzo nodo guadagnato, vento in calo, un nodo in meno, giù il fiocco e su il genoa, mezzo nodo guadagnato, vento in calo, un nodo in meno.
Il sole allo zenith scruta dall'alto una barca immobile. Il log segna 0.0 nodi, e per una volta il GPS è d'accordo.

Il resto della storia è banale. Riceviamo una telefonata dal Comitato di regata, nella persona di Piero, che ci chiede gentilmente notizie annunciandoci nel contempo che a Riva di Traiano soffia una bava di scirocco. Considerato che lui sa benissimo dove siamo e qual è la nostra velocità, il sottotesto è chiaro: lo scopo di questa chiamata è solo quello di ottenere ufficialmente con alcune ore di anticipo quello che è ormai scontato, il nostro ritiro. Facciamo finta di pensarci un po' ma la matematica è spietata: nemmeno a motore saremmo sicuri di arrivare entro il tempo limite. Lo accontentiamo, dietro la promessa “vi aspettiamo per la festa”.

Mangiamo un panino, accendiamo il motore, tiriamo giù le vele inutili, caliamo la traina, ci stendiamo al sole. Arrivati al porto facciamo in tempo per miracolo ad assistere alla premiazione, anticipata di due ore, ma non a partecipare al famoso buffet, che viene spazzolato con velocità da regatanti incalliti ancora prima dell'orario ufficiale.

Al bar ormai deserto incontriamo Marcello, seduto accanto al suo trofeo, che intercede per noi: magicamente ci vengono apparecchiati gli ultimi rimasugli scampati all'abboffata. Il pomeriggio è mite, e il sole al tramonto esalta i riflessi ambrati della birra ghiacciata che chiamo ad accompagnare i tramezzini. Ci rilassiamo, ci scambiamo promesse per prossimi incontri. Nonostante il risultato, siamo soddisfatti di noi, del bel viaggio e soprattutto della Duna. 


Del resto, come scrisse Elena Canino: "Le vere signore non vincono mai". 

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