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Caccia Grande


Oggi siamo usciti da Syros inseguiti dalle urla di un tipo vestito in giallo e viola. Era l'Harbour Master - termine forse sprecato per quell'uomo burbero imbrillantinato e stirato alla perfezione - che voleva qualcosa da me: che accostassi alla banchina sottovento per rimanervi incastrato mentre lui avrebbe fatto il simpatico coi ricconi dei superyacht in attesa della necessaria mancia, immagino. O forse, semplicemente, voleva con le sue urla far sapere a tutto il porto che la banchina di rappresentanza non è lì per essere occupata da un Serenity. Non lo sapremo mai, perché è ancora lì che urla.

Siamo arrivati a Rhinia a vela, prima lentamente, poi bordeggiando a sei nodi nel canale tra Delo e Mikonos. Che belle le mie nuove vele, bianche e croccanti: i velai della Bianchi&Migliori hanno fatto un buon lavoro, non c'è dubbio.
Abbiamo scelto con cura la baia e, una volta dentro, l'ancoraggio. Deformazione professionale da surveyior: prima di calare la mia delta sulla sabbia mi sono preoccupato di controllare le batimetrie dell'intero golfo.


Spento lo zio Nanni cominciamo a guardarci intorno. Siamo soli, a parte una barchetta appoggiata a un accroccato pontile sulla spiaggia,
forse appartenente alla fattoria poco a est, nell'entroterra. L'acqua è trasparente come vetro, i fondali candidi, con macchie qua e là di posidonia. Sulla costa, davanti a noi sabbia, più a destra scoglio. E mi viene in mente la mia esperienza di ieri, con Vassili, a Tinos. L'ho accompagnato per una mezz'ora "greca" - ovvero per più di due ore - nel suo quotidiano giro in cerca di pesce da vendere ad Atene. Lui nella sua muta intera da 7mm, io con la mia mezza, estiva, lungo tutta la scogliera che scende a picco fino oltre i venti metri. Sospeso nel blu, osservavo dall'alto il volo dei pesci come in un cielo rovesciato. Dimentico di Vassili, era lui a cercarmi di tanto in tanto comparendo dal nulla accanto a me. Mi tendeva la sacchetta in rete: "Puoi tenermela due minuti?" mi chiedeva in Inglese, a volte, a volte in Greco. E scendeva dritto per dritto, come lungo una fune, verso il blu più profondo. Osservava la scogliera, illuminava le piccole caverne, tornava su, o aspettava. Dopo due ore abbiamo nuotato indietro fino alla spiaggia della taverna, passando accanto alla Duna saldamente assicurata a un corpo morto, con due cernie di media grandezza. "Mi hai portato fortuna" mi ha detto Vassili, e ha insistito per offrirci il pranzo. Aragosta e seppia, e insalata, e vino, in riva al mare, fino a sera.

Memore di quanto avevo visto ieri, mi viene in mente oggi che potrei provare io stesso a pescare qualcosa. In cinque metri d'acqua, certo, mica in venti: quanto può permettermi la mia esperienza, la mia muta, il mio piccolo fucile ad aria compressa.
Mi vesto, indossando forse per la quarta volta in quattro anni la mia attrezzatura da fintosùb. Mi lego in vita un cestino galleggiante, un coltello, un fregno fatto apposta per infilare e tenere i pesci dopo averli catturati - ecco, non conosco nemmeno il nome di quel che uso - e tolgo uno dei pesi dalla cintura: secondo Vassili ieri ero troppo pesante.
Indosso la maschera e vado. Due pinneggiate, fino alla macchia più vicina di poseidonia, e subito vedo una seppia appostata tra le foglie. "Ora la catturo!" penso, eccitato: abbiamo la cena per stasera. Tenendo d'occhio il cefalopode, perso nei suoi insondabili pensieri a mezzo metro dal fondo, prendo un bel respiro e mi immergo. O meglio: provo ad immergermi, perché senza quel piombo giù
proprio non riesco ad andare. Ma la seppia è lì, e se torno indietro ad appesantirmi la perdo. Provo ancora, e ancora. Devo essere uno spettacolo pietoso, visto da fuori, con queste pinne che si agitano in aria come gli arti di un goffo capodoglio in amore. Al quarto tentativo riesco ad andare a fondo, agile come una statua male abbozzata, e arrivo alla seppia. La punto, è a trenta centimetri dal mio tridente, la farò in padella, o in pentola a pressione, magari con due patate tagliate a cubetti... premo il grilletto e... c'è la sicura! Mentre la tolgo, la seppia si accorge di me e scappa.
Torno a galla, bestemmiando nell'eccitazione della caccia, e la inseguo. Si è fermata alla macchia di poseidonia successiva. È bianca come la sabbia ora, mentre prima era marrone scuro. La osservo, lei mi osserva. Quanta memoria ha una seppia? Aspetto cinque minuti buoni, fino a che lei non cambia di nuovo colore. Immagino sia segnale che è di nuovo distratta dai suoi problemi quotidiani. Allora tolgo la sicura e provo di nuovo a immergermi. Stessa scena di prima, con in più il retino galleggiante incastrato tra le pinne. Faticosamente, pieno di vergogna, arrivo di nuovo vicino alla seppia, quasi più di prima, la miro, sparo. E la manco clamorosamente. Ecco come si sente il centravanti che sbaglia all'ultimo minuto il rigore della vittoria a porta vuota, rifletto immobile e muto mentre osservo la seppia schizzare via in una nuvola di nero. Stavolta non si ferma a nascondersi: provo a seguirla, ma sparisce in lontananza.
Nell'inseguimento, però, adocchio un pesce interessante. Mi pare un sarago, o uno della sua famiglia. Sarà un trenta centimetri, adatto ad una cena per due. Sta lì, insieme agli amici, tutti più piccoli. Mi avvicino, di nuovo mi immergo con infinita difficoltà, gli sparo subito, senza pensarci due volte, e ancora una volta manco il bersaglio. 

In fondo, però, la colpa non è la mia. È l'assetto consigliatomi da Vassili ad essere sbagliato: scocciato, torno indietro fino alla barca, lascio l'inutile cestino, mi ricarico del piombo mancante e cerco di tornare sullo scoglio del sarago.
Trovo lo scoglio, e anche lui, coi suoi occhi grandi e le sue macchie nere attorno alle branchie. Scendo, stavolta facilmente, e attrettanto facilmente lo seguo mentre tenta la fuga attraverso i corridoi tra le pietre. Ce l'ho sotto mira, a un metro, ma si muove rapido e credo sia impossibile colpirlo, soprattutto dopo aver dato mostra di così grande mira. Poco prima di finire l'aria nei polmoni premo il grilletto e, contrariamente ad ogni previsione, lo prendo in pieno.
Rimane sul fondo, appesandito dall'arpione, mentre io respiro. Prendo il mio attrezzo per portare i pesci - il fregno, in linguaggio tecnico - che però si è incastrato con la cintura e con il coltello. Rimango lì, a galla, con il vento e le onde che mi spostano di qua e di là sempre nella posizione più scomoda, a cercare di liberarmi. Devo togliermi tutto, per farlo, e appesantito come sono ora rischio di finir con il naso sott'acqua. Quando recupero il pesce lui è già morto, forse più di noia che per il colpo ricevuto. Viene su insieme all'arpione, e man mano che si avvicina diventa alla mia vista più piccolo, sempre più piccolo.
Fino a che lo vedo da vicino. 

La mia preda, il premio per la mia epica caccia avventurosa, inseguito duramente, fortemente voluto, è un saraghetto grosso non più della mia mano.

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