È notte quando entriamo nel porto di Ermoupoli. Ho indovinato con l'aiuto del binocolo i tenui fanali lampeggianti che ne indicano l'ampio ingresso, faticando non poco a distinguerli sullo sfondo delle luci cittadine.
Una volta dentro le due colline, ciascuna sovrastata dalla propria cattedrale - una ortodossa l'altra cattolica - salgono su dal nero dei moli come due giganteschi, piramidali alberi di natale generosamente adornati. Rimaniamo muti a osservarle, mentre ci avviciniamo lentamente alla banchina.
Avevamo visto già da fuori molti alberi e sapevamo che avremmo trovato più di una barca, ma non ci aspettavamo di trovarne davvero così tante. Occupano tutto il molo a loro riservato, quello sulla destra, mentre giù in fondo sono i superyacht a farla da padrone.
Siamo stanchi, anche se mi imbarazza dirne il motivo: abbiamo mangiato per tutto il giorno nella taverna di Fotis, ospiti dell'amico Vassilis, pescatore subacqueo. Ci hanno offerto un'aragosta, e una seppia, oltre ad un antipasto di ricci di mare e crostacei mangiati direttamente sul molo dove io e Vassilis ci siamo spiaggiati dopo due ore di nuoto. Lui ha pescato anche due cernie, ma le spedirà domani ad Atene, insieme al pescato di ieri. Arrotonda così il suo stipendio da impiegato.
Abbiamo viaggiato a vela in mattinata, per raggiungere la baia sperduta alla testa della quale ci siamo seduti a osservare la Duna dondolare quieta in nostra attesa. Abbiamo viaggiato a motore la sera, in ritardo su qualsiasi plausibile programma, per arrivare qui. Ed ora non c'è posto.
A guardare bene ci sarebbe anche, il posto, se solo un paio di barche allentassero di poco le loro cime di ormeggio. Proviamo ad avvicinarci a uno spazio più largo degli altri. Due proprietari su due prue dialogano tra loro in Inglese. Chiediamo gentilmente se sia possibile mettersi tra loro. Uno ci ride in faccia. "È uno stronzo, chiedi all'altro" faccio alla mia compagna di avventura. L'altro è estremamente tranquillo, forse perché non può toccare gli ormeggi: la barca non è la sua. "Vado a chiamare l'harbour master" ci dice lo stronzo, "Aspettate dieci minuti". Certo: alle dieci e mezza di notte noi restiamo qui in attesa che tu, dopo averci riso in faccia, fai finta di andare a chiamare qualcuno che in ogni caso non verrà.
Proviamo nel secondo spazio disponibile, di poco più largo. Mi avvicino di prua e intanto rifletto sul senso profondo della barzelletta che mi ha raccontato stamattina Vassilis, mentre mi scarrozzava a vedere se la baia dove avremmo dovuto passare il pomeriggio fosse o meno adatta a un ancoraggio di bel tempo. Pare che due inglesi, su un isola deserta, siano morti senza essersi mai rivolti la parola per mancanza di un terzo che facesse le presentazioni.
Il secondo spazio è tra una portaerei bianca senza bandiera e una portaerei blu battente bandiera yankee. Lo yankee è a bordo, ma si affretta a scendere non appena cominciamo la manovra. Dopo aver calato l'ancora entro lento lento, preciso, e sto quasi per farcela quando il baglio massimo della barca bianca, con l'aiuto di un parabordo più grosso e gonfio del mio tender, mi incastra. Alla mia sinistra, la barca blu fa lo stesso. Compare una donna, mi osserva ma non dice nulla. "Puoi allentare un poco la tua cima di ormeggio?" le chiedo, ma no, pare che se mollasse di dieci fottuti centimetri la sua cima - ha spazio in abbondanza dall'altra parte - l'intero pianeta Terra diverrebbe un posto pericoloso anche solo per andare al cinema. Rimaniamo così, incastrati, con la retro ingranata, a cercare di capire come guadagnare quei pochi centimetri che ci permetterebbero di arrivare comodamente in banchina.
Lo yankee ricompare proprio quando io sto spingendo coi piedi la murata bianca. Il suo inglese è quasi incomprensibile, o forse parla apposta così per fare l'antipatico, e ci riesce benissimo. Non ci vuole lì, non ha intenzione di aiutarci, non allenterà la cima. "Per come sono incastrato potrei fare più danni uscendo che entrando" gli dico, ma non gliene frega nulla, le sue cime sono sacre come i cippi di confine del Tullo Ostilio di Luigi Magni. "Perché non andate alongside laggiù?" mi propone, indicandomi la banchina traghetti. "Il traghetto arriverà solamente alle dieci, e a quell'ora qui si saranno liberati posti". Sembra sicuro di sè.
"Ne sei sicuro?" gli chiedo allora, colpito dalla sua padronanza dei luoghi.
"No, l'ho solo sentito dire" mi risponde.
Devo apparire piuttosto deluso, forse anche scettico se non addirittura nervosamente aggressivo. Allora insiste: "E poi quando arriva il traghetto qui dobbiamo stare larghi".
Fosse per me lo ucciderei all'istante, ma solo dopo aver perso un paio di ore della mia vita a grattuggiare davanti ai suoi occhi il gelcoat della sua lucida portaerei, come fosse parmigiano. Potremmo stare larghi, se solo allentasse la sua strafottuta cima, ma se lui non cede allora automaticamente ha anche ragione a temere il traghetto, e io con lui, e così decido di provare all'Inglese sul molo peggiore.
"Ci vediamo domattina" mi saluta lui.
"Sì, ma lascia giù la passerella, perchè se durante la notte arriva qualcuno a cacciarci veniamo a dormire da te", e chiedo alla mia prodiera di tirare a bordo l'ancora.
Di nuovo al centro del porto, osservo di lontano il molo proposto dallo yankee, e ne sono sempre meno convinto. Decidiamo di andare a farci un giro tra i superyacht, tentando audaci la fortuna, e quasi alla fine, dalla parte sfigata della città, ecco un magico posto dove potremmo entrare due volte e sentirci dei re. Diamo ancora e lenti entriamo nello spazio scelto, increduli. Sul molo nessuno ci accoglie, anzi no, una passante si ferma e torna indietro, le lancio una cima e scopro che è una Italiana, di gentile aspetto, che nonostante la sua elegante tenuta da sera passa la mia cima sotto un anello e con sapienza forse innata recupera metri su metri fino a farmi arrivare da lei. "Non ci ha aiutato nessuno, sono tutti stronzi tranne te" la mia compagna interviene venendo con occhi di brace fino a poppa, e il vicino turco, come per smentirla, manda in quell'istante il suo marinaio a prenderci la cima sottovento. Spengo il motore, siamo arrivati.
Il nostro vicino turco è seduto al tavolo esterno in mogano del suo superyacht di trenta metri in legno lucido, il più piccolo tra quelli da questa parte del porto. È al telefono, ma interviene nel dialogo tra me e il suo marinaio per spiegarmi che sì, il traghetto arriva diverse volte al giorno, ma sull'altro molo. Il problema, però, è la risacca.
"Lo so, allenterò le cime e mi allontarnerò dalla banchina, stanotte". Gli confermo.
"Non c'è bisogno: ti presto uno dei miei parabordi" e fa un cenno deciso, con il mignolo, al marinaio.
Due minuti dopo Duna è al sicuro nel porto di Ermoupoli, alla banchina d'onore dei maxi yacht, la poppa protetta da un parabordo a pallone turco di un metro abbondante di diametro.
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