Riassunto dell prima parte (da leggere qui) :
Sono in banchina, circondato da roulotte e campeggiatori. Ho il motore in panne.
Sono arrivato a Poros da poche ore e già odio tutti.
Prendo mentalmente nota che, così come in rada, anche in porto è meglio infilarsi dove è già affollato in maniera da scegliersi i vicini e, eventualmente, incasinarsi da soli il proprio ancoraggio. Finisco la birra, apro il cofano e osservo lo Zio Nanni.
Lui osserva me di rimando, in silenzio. È un gatto che si sente in colpa. Smonto qua e là. Il cavo dell'acceleratore sembra sano. Bestemmio: sarà la leva che lo comanda? In effetti sembra un po' scattosa ultimamente...
Per controllare devo accedere dalla cabina di poppa. E per accedere alla cabina di poppa devo svuotarla. Quindici minuti dopo arrivo alla leva: sembra sana anche lei. Non mi rimane che provare a staccare il cavo e accendere regolando il gas con l'alluce, gamba in estensione e natica in bilico... E il difetto c'è ancora, è proprio lui: ora capisco i sensi di colpa dello Zio.
C'è una vitina, sotto l'accrocco, che regola il minimo. Mi armo di cacciavite e provo a svitarla. Smanetto un po', riaccendo, regolo ancora con motore in moto, rimonto il cavo. Sembra funzionare. Nell'angolo posteriore sinistro del cervello qualcosa non mi torna: come è mai possibile che dopo alcune decine di anni e svariate migliaia di ore di moto improvvisamente il minimo si sia starato tanto da dover quasi estrarre tutta la vite? Ma questa soluzione che ho appena trovato si presenta semplice, immediata, apparentemente risolutiva: voto per considerare chiuso il problema, e staccando la mano dalla vite di regolazione vado a spegnere il motore.
Ed è proprio staccando la mano dalla vite che il dito mignolo sfiora un tubicino in rame nascosto sotto il collettore dell'aria, e il motore prende di nuovo giri, il drogato. Quel tubicino è rotto, la saldatura di giunzione al suo raccordo spaccata da 36 anni di vibrazioni. Oh cazzo.
Devo trovare il Tramontanis di Poros, lo scorso anno mi successe qualcosa di analogo a Limnos e questo era il nome del mio salvatore, ma qui non conosco davvero nessuno.
Chiedo l'aiuto da casa, un paio di amici hanno svernato nei cantieri appena dopo il porto e, mentre considero la possibilità, in emergenza, di plasmare intorno alla giunzione una palla di stucco epossidico, vado a cercare una lavanderia. I miei vicini, intanto, stanno stappando la seconda birra, e con tonanti grida gutturali ordinano sardine arrosto alla taverna Poseidon, una quarantina di metri più in là, oltre il lungomare e la strada.
La lavandaia non parla inglese, ma ha grandi occhi bovini e dolci e riesco comunque a prendere accordi con lei. La saluto e poi, alzando l'indice come un improbabile Tenente Colombo in jeans stracciati al ginocchio, mi volto e le chiedo del motore. Mi salva ancora una volta Tramontanis: ho con me il suo biglietto da visita pieno di foto di tubi e di scritte in Greco, e lo mostro fiducioso alla donna. Lei mi fa cenno di seguirla. Usciamo all'aperto, arriviamo fino al caffè dell'angolo, la donna chiama il gestore, le spiega qualcosa e mi affida a lui. Il tipo mi spiega che c'è una ferramenta fornitissima dopo il supermarket. Lontano? No, saranno 250 metri. Mi incammino, consapevole che i metri qui in Grecia dipendono da quanta simpatia prova per te il tuo interlocutore, e dopo dieci minuti di salita sotto il sole comincio a sospettare di aver trovato proprio qui, in questo angolo sperduto dell'Attica, la mia anima gemella.
Quando arrivo sono stravolto e sudato. Il ragazzo che comanda nella ferramenta parla inglese meglio di me, soprattutto a quest'ora, dopo 30 miglia di bolina e due ore a testa in giù nel vano motore, ma non mi fa partecipe della situazione. La capisce, almeno spero, e se ne prende carico, comunicandomi solo, un quarto d'ora dopo, il risultato delle mille telefonate fatte: il mio uomo sta arrivando, lui è il miglior saldatore di tutta Poros. Lo aspetto qui, per dieci minuti? No, i dieci minuti greci li conosco, e preferisco aspettarlo a bordo.
Mezz'ora dopo il grido "Duna! Captain!" mi distoglie dalla mia occupazione, lasciar rilassare mente e corpo fissando il vuoto in attesa di un grido dalla banchina, e uscito in pozzetto trovo Robert Mitchum che mi guarda sorridente accanto alla plancetta. Il ragazzo in motorino, quello che ha gridato, prima di sgasare via a palla fa in tempo a urlarmi: "This man does not speak English!". E sparisce, lasciandoci soli.
Io e l'uomo che non parla Inglese abbiamo un solo argomento di conversazione in comune, il mio tubo rotto, ma non riusciamo a inanellare due parole di fila dal momento che io non parlo Greco. L'unica cosa che capisco è che mi sta suggerendo di ordinare il pezzo originale. La fortuna vuole che io, appunto, non parli Greco, né lui l'Italiano, e che quindi le mie immediate spontanee esclamazioni di romanesco ringraziamento vadano perse nel vuoto. Indico lo Zio e spiego: "aftó ARCAICO", e proseguo a gesti proponendo di tornare dal ragazzo che parla Inglese.
250 metri greci più tardi Robert Mitchum, che nel frattempo ho scoperto albanese con parenti a Rimini, discute in Greco col ragazzo. Io sono tagliato fuori, mentre loro telefonano a destra e a manca, fino a che il tipo mi stringe la mano, ammicca e se ne va. E ora? Il ragazzo attacca il telefono e mi annuncia che il mio uomo arriverà alla barca tra venti minuti: è il miglior saldatore di tutto il golfo.
I Russi sono fuori a cena quando il miglior saldatore arriva. Tanto massiccio quanto laconico si prende il tubicino che io ho smontato e dopo che gli ho raccontato dell'ancoraggio dei vicini promette che domattina per le otto, massimo le nove, me lo riporterà. Già vi svelo che si presenterà alle undici passate.
No, non sa quanto costerà. La sua officina è di là, dall'altra parte (gesto vago) e il suo nome è... E si allontana prima che io riesca a capirlo.
I Russi tornano, sono alticci, stappano del prosecco. Attaccano lo stereo, e la disco music delle steppe ucraine si diffonde violenta in tutto il porto. Io mi avventuro ancora in un viaggio verso la ferramenta per avere un raccordo che loro non hanno ma io sì, bastava cercarlo meglio. Sto creando un tubo di emergenza con uno da gasolio usato - a volte le mie manie da rigattiere si dimostrano utili - e ormai a notte fonda il rombo dello zio Nanni copre per pochi minuti la musica e le urla ubriache dei vicini. "E ora partite pure spedandomi l'ancora: io sono pronto".
Mentre mi preparo la cena e comincio a scrivere questo racconto i Russi sperimentano i primi alterchi, per questioni legate alla vodka immagino. Io son chiuso dentro, mi faccio una doccia, mi rilasso per la prima volta da quindici ore. Scrivo. I Russi si sono spenti, si riavranno alle sei di mattina per fare la pace pisciando cameratescamente tutti insieme fuori dalla murata e poi crolleranno definitivamente lì dove sono, sul campo di battaglia, mantenendo nel sonno la posa eroica dei loro ultimi secondi di veglia. Li trovo al mio risveglio arravogliati al tender, o accartocciati in pozzetto tra bottiglie semivuote e bicchieri semipieni. Alcuni vagano come automi in occhiali da sole per il pontile caricando a bordo casse e casse di vino.
Io faccio colazione in pozzetto, all'ombra, e in attesa del miglior saldatore del golfo mi applico nel dimostrare che non tutto il male viene per nuocere. Prima o poi doveva accadere, prima o poi avrei dovuto farlo.
Studio il Greco.
Kalimera sas.
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appena ripresomi dalle convulsioni ti comunico la mia solidarietà per gli odiosi anelli della catena che si incastrano!!
RispondiEliminaabbasso i russi!
;)