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La catena arrugginita

Eccomi a Egina, ormeggiato al solito posto, in teoria accanto al grande yacht a motore col marinaio con la frezza bianca e il comandante panciuto e flemmatico. Ieri, entrando, mi ci sono diretto immediatamente sapendo che lui non esce mai, che è ben ancorato e che mi avrebbe ridossato dal vento di NW che già cominciava a soffiare. Solo che stamattina c'era anche l'armatore, a mangiare bacon per colazione sulla sua “terrazza” affacciata sul lungomare ancora assonnato, e un'ora dopo, con mia somma sorpresa, lo yacht ha mollato le cime e ha preso il largo. 
Alla mia sinistra c'era, ieri, una barca a vela anche lei vistosamente più grande di me. A bordo una coppia mediamente simpatica: nel senso che lei, affabile e sorridente, compensava la scontrosità di lui. L'ho spiata, a prua, sussurrare parole dolci all'orecchio del cane di bordo.  
Mi hanno svegliato stamattina facendo troppo rumore nel cercare di divellere la mia plancetta, sotto cui il maschio aveva accuratamente sistemato la sua cima di ormeggio nel caso avessi avuto dubbi sulla sua empatia, ieri, arrivando. Li ho aiutati a salpare. 
Avevo detto saccentemente a Paolo, appena sbarcati in banchina: “Lo yacht a dritta non esce mai, lo trovo sempre qui. E la barca a sinistra non ha neanche le vele armate, probabilmente è appena uscita dal cantiere e rimarrà qui un paio di giorni a sistemare tutto. Sono in una botte di ferro”. E infatti ora sono l'unica barca in cinquanta metri di molo.

Stamattina il NW si è fatto sentire parecchio, e poco dopo la partenza dello yacht, che evidentemente ridossava non solo me ma anche le barche successive, le ancore hanno cominciato a saltare. 
Per primi i sessantenni belgi. Lei al verricello che recupera catena, e la catena che viene su a scatti mentre la prua si abbatte sottovento. Scena già vissuta, un paio di anni fa a Cefalonia finii in banchina per non aver voluto accettare che la mia ancora non stava più tenendo. Lui, flemmatico, con la poppa ormai quasi appoggiata al cemento, ha sistemato la passerella, preparato le cime e ha dato motore: si sono allontanati nelle raffiche, hanno provato a ormeggiare qui di fronte, non ci sono riusciti anzi forse hanno catturto una catenaria. Hanno fatto su e giù per parecchio, poi mi sono distratto e, dopo un attimo, li ho persi di vista. Dove andrei a ridossarmi con questo vento? Comincio a riflettere. A sud dell'isola, o forse Methana, o Poros. Certo qui non è divertente. E scavo nella cesta delle cose dimenticate fino a trovare una cima adatta a diventare il mio spring, armandolo immediatamente a tenere la prua contro il NW rabbioso. 
Con la coda dell'occhio, nel frattempo, noto che la donna della barca Olandese è anche lei al verricello, e anche lei è intenta a recuperare la catena. Questa si tende e lei si allontana soddisfatta, ma ancora una volta la statistica è confermata: tempo 10 minuti ed è di nuovo lenta. Lui fa quello che ho provato io appena tre giorni fa a Korfos: dà motore e scontra il timone, si appoggia sulla cima sopravvento e tiene dritta la barca mentre si prepara a salpare l'ancora. A differenza di me, però, lui è bravo e la barca non scade di un millimetro, mentre io a Korfos me la son vista davvero brutta. Loro sono ancora più flemmatici dei Belgi: escono, danno ancora nello stesso posto e ritornano indietro. Io sono lì in banchina ad aiutarli con le cime. Mi ringraziano e io sono contento. Tra poco potrebbe capitare a me, e mi farà comodo avere degli amici. 
Torno in barca e ritocco ancora l'ormeggio: mollo la cima di poppa sopravvento per scalare un poco, di modo che lo spring lavori meglio. Sembra tenere… o forse no? Calcolo mentalmente quanto mi ci vorrà, nel caso, a salpare… Il cavo elettrico da staccare e buttare in banchina (ma rimarrebbe in tensione, dovrei invece scendere e spegnere il quadro), lo spring da sciogliere (momento critico, è lì che a Korfos il verricello ha cominciato a sgranare), le cime da recuperare dopo aver tolto le fasce di protezione, la ritenuta della catena… Spero la manovra dell'Olandese funzioni, perché ho solo quella per evitare di schiantarmi. 
Ma il tempo passa e l'ancora tiene. Faccio il bucato, passo il silicone sul plexiglass di prua, ieri faceva acqua, svuoto le taniche di gasolio nel serbatoio. 
L'ancora tiene. Preparo il pranzo, accendo il computer, comincio a scrivere. 
L'ancora continua a tenere. Le raffiche, poi, sembrano essere diminuite. Forse posso permettermi di lasciare la barca incustodita per arrivare alla ferramenta più fornita, quella vicino al mercato del pesce, giù in fondo al porto, appena spento il pc. 

Perché solo la mia ancora ha tenuto? Quanto c'è mancato perché spedasse come le altre? L'unica ipotesi che mi sembra plausibile è che per ora, finora, sono stato fortunato, perché anche se ieri ho gongolato di piacere quando un vecchio marinaio si è fermato davanti alla Duna, mi ha fatto un cenno e mi ha detto, in Inglese: “Ti ho visto entrare, ero dall'altra parte del porto: gran bella manovra di ancoraggio”, preferisco continuare a pensare che l'orgoglio, in mare, sia più inutile di una catena arrugginita.




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