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Lo spi di bolina



Io arrivo un po’ prima, sbarco le ultime cose, preparo le cime, sciolgo gli spring e li lancio in banchina. La Duna va in cantiere, a Fiumicino, sfruttando quella che sembrerebbe l’unica finestra favorevole dell’intera settimana, o dell’intero mese, a quanto posso sapere.
Le diverse previsioni, dopo aver oscillato per giorni ognuna per conto proprio, hanno finalmente trovato un accordo, e sentenziano tramontana, o meglio grecale, Nord Est, F4, per tutto il tragitto.
Io mi fido e non mi fido, e nell’eventualità che la realtà sbagli e non si allinei a tanti siti meteo consultati, riporto a bordo lo spinnaker. Hai visto mai.
Quindici nodi di tramontana significano anche freddo, e me lo conferma per telefono Daniele, lui scende giù dai monti, “Faccio tardi, ho dovuto prendere la strada più lunga perché qui è tutto ghiacciato”.
Me lo vedo arrivare in banchina verso le nove e mezza, tutto bardato stile esquimese, come me del resto. “Sotto ho la calzamaglia, e in borsa il passamontagna”, mi annuncia. E poi, poco dopo, “Madonna che caldo!”.
In effetti in banchina non tira un alito di vento, e il sole comincia a scaldare l’aria scacciando l’umidità notturna. Accendiamo il motore, prepariamo le vele e usciamo.


Fuori continua a non esserci vento. “Perché qui è ridossato” tranquillizzo Daniele, o forse è che non mi va di farmi 30 miglia a motore, “Poi fuori lo troviamo, il vento”. Alziamo la randa approfittando della calma e puntiamo verso il largo.
Verso il largo sembra sempre ci sia, il vento. Verso il largo è sempre pieno di creste bianche, mentre qui dove siamo sono poche e isolate. Una volta arrivati al largo, di solito scopriamo che anche qui le creste sono poche e isolate, e il vento poco, mentre dove eravamo prima, verso terra, ora sembra soffiare il vento giusto. Il vento giusto, in realtà, sembra sempre soffiare un po’ prima dell’orizzonte, in tutte le direzioni, e con esso si sposta, rimanendo costantemente alla stessa distanza.
Questa volta però, arrivati a due miglia fuori da Capo Linaro, il vento c’è davvero. Da maestrale. Soddisfatto, spengo il motore e faccio per vantarmi di aver visto giusto, che tattico! Peccato che, voltandomi, mi rendo conto che non siamo noi ad aver raggiunto il vento, ma lui noi. Le crestine ricoprono anche il tratto sottocosta che noi abbiamo appena navigato a motore.


La rotta diretta ci metterebbe il vento esattamente in poppa. Proviamo, ma il genoa sbatte immediatamente nel rifiuto della randa. Proseguiamo al lasco, allontanandoci ancora dalla terra seguendo la mia personale convinzione che “più vai fuori meno casini incontri”, oltre a vaghe reminescenze di meteorologia locale che, mi pare, suggerivano che se la costa è a sinistra del vento - più tutta una serie di altre condizioni - questi devia verso di essa diminuendo di intensità.
Inoltre, ragioniamo ad alta voce, dopo Capo Linaro sicuramente qualcosa cambierà, aspettiamo, proseguendo per 180° invece che per i 130° che ci porterebbero a Fiumicino.


Passano un paio di miglia. La costa curva e si allontana. “Proviamo a farfalla” propone Daniele. Proviamo, poggiando e facendo passare il genoa. Siamo in rotta. Tempo due minuti e il vento ruota. Il genoa cerca di tornare dove era, e lo seguo col timone fino a trovare la direzione giusta. Ci siamo. Leggo la bussola: 180°. Ma dopo Capo Linaro qualcosa cambierà, e così manteniamo la rotta per un paio di miglia prima di prendere atto che, a meno di voler atterrare a Palermo, è forse il caso di cambiare mura e metterci al giardinetto.
Lo facciamo, puntando dritti verso Fiumicino. Passano due minuti e il vento cala, ruota, ci ritroviamo di nuovo a farfalla. La nostra velocità scende sotto i quattro nodi. Guardo sul GPS in quadrato, che sentenzia, freddo, l’ora di arrivo: 17.30; e io che mi ero vantato di poter essere in cantiere per le 15... Pur considerando che siamo partiti con quasi un’ora di ritardo rispetto allo stabilito, e con la scusante di una carena zozza di tre anni, sette ore e mezza per poco più di 26 miglia in linea d’aria non sono quel che mi aspettavo, e inoltre non mi piace l’idea di arrivare di notte, col freddo (che prima o poi si farà sentire). Accetto la proposta di Daniele: issiamo lo spi.
Portiamo fuori il sacco, sistemiamo il tangone, passiamo la scotta, il braccio, il caricabasso. Io lo tirerei su dietro il genoa, Daniele invece, “per non complicarsi la vita” - il genoa è ingarrocciato questo va ricordato - preferirebbe aver prima ammainato la vela di prua. Ha più esperienza di me e lo lascio fare. Siamo quasi pronti, manca da incocciare la drizza, quando il vento rinforza con decisione. Torniamo al giardinetto, con le vele ben gonfie, oltre i 5 nodi di velocità, in rotta perfetta per 130°. Il GPS sentenzia “ora di arrivo 16.30”, dovrebbe esserci ancora luce, va bene così: rimandiamo l’issata lasciando tutto pronto, e rizzato, a prua.


La stessa scena si ripete, nell’arco della giornata, un altro paio di volte. Il vento cala, noi resistiamo pur immaginandoci scivolare verso la banchina del cantiere nascosti dalle tenebre e intirizziti dal gelo, e quando decidiamo di issare lo spinnaker, nell’esatto momento in cui sganciamo la drizza dall’albero, ecco il rinforzo. E una leggera rotazione oraria.


La giornata, scrivevo, passa così. Ci alterniamo al timone, mangiamo pizza bianca e mortadella, ci affidiamo ad Arthur, l’autopilota, per lunghi tratti mentre chiacchieriamo o ci incontriamo a prua a osservare la meta lontana. Ogni tanto una sorpresa.
La prima, la cesura netta tra le acque fangose del Tevere e quelle blu scure del mare che incontriamo bene a nord, al traverso di Cerveteri, e che ci dà l’impressione di navigare paralleli e vicinissimi ad una enorme secca rettilinea. La seconda è Daniele che mi chiama allarmato: siamo appena passati a pochi metri da un grosso bidone metallico a pelo d’acqua. Nessuno di noi due se ne era accorto ma, guardando indietro la nostra scia, ci rendiamo conto che Arthur aveva provveduto per noi, accostando ad evitarlo per poi rimettersi in rotta. Lo so, nella teoria non è possibile, però questo è quanto è successo. Chiedete a lui.


A circa nove miglia da Fiumicino il vento, che abbiamo ormai al traverso, ridonda decisamente. Cala. Un po’ per la noia, un po’ per il fastidio di vedere il GPS prevedere di nuovo il nostro arrivo per le 18, un po’ per curiosità, stabiliamo che è davvero arrivato il momento dello spi. Daniele nel frattempo si è convinto che sì, è meglio tenere su il genoa, e così all’ultimo momento cambiamo il percorso della scotta e passiamo la drizza davanti allo strallo. Io al timone e lui all’albero, aliamo finalmente gli 80 metri quadri di nylon biancorossoblù. Lo spi sfila sotto la vela di prua, fileggia, recupero un po’ la scotta giusto per non farlo finire in acqua, va su, va su… fino a che, a due-tre metri dalla testa, rimane lì, bloccato. Daniele non riesce a farlo salire oltre e contemporaneamente il vento salta di nuovo e rinforza: ci troviamo di bolina larga, la barca che vola piegata sull’acqua, lo spi con la penna a mezz’aria e la scotta che sfiora le onde, anzi ci finisce dentro… Daniele appeso alla drizza non sa se forzarla ma no, decidiamo istantaneamente che non è il caso anzi “tiriamolo giù!”: abbiamo una nave alla fonda a forse un miglio sottovento e non possiamo nemmeno perdere tempo di poppa, se finisce in acqua e fa sacco vai a capire che succede.
Una barca a vela al nostro traverso si gode la scena, registro con la coda dell’occhio, mentre con una mano manovro il timone e con l’altra rilascio lentamente la drizza - fortuna che scende - che Daniele mi ha lanciato da sopra lo spray hood, mentre lui recupera a bordo lo spinnaker e lo imbroglia alle draglie ad asciugare. Magari la prossima volta la drizza la passiamo, oltre che davanti allo strallo, anche sopra quella di rispetto del fiocco. Così, tanto per dire di aver imparato qualcosa.


Salvi, noi la barca e le vele, filiamo veloci verso la nostra meta, con una nuova certezza, lo spi di bolina meglio di no, e un unico dubbio, il mio: guardando col binocolo la costa lontana per stabilire se siamo in rotta per l’imboccatura del porto canale sentenzio, deciso “Per me potremmo anche stare atterrando in Nuova Zelanda, non riconosco una mazza di quello che vedo”. In effetti ho problemi a piazzare sulla carta geografica una cosa verde che sembra una pineta e che sembra stare a sud di quella che sembra Fiumicino. Daniele è più pragmatico e si affida ciecamente al GPS. Ora di arrivo 17.05: chiamo Manuela e le chiedo di venirci a prendere in darsena verso le 17.30.
Un’oretta più tardi la geografia si dipana e il fanale rosso è chiaramente visibile. Entrambi a prua, a guardare oltre la vela e a raccontarci di Duna - Daniele l’ha tenuta per anni prima di vendermela circa 7000 miglia fa - facciamo a chi indovina la distanza: “Per me un paio di miglia” faccio io, “Meno di uno” scommette lui.
Scendo in quadrato e controllo sul GPS. Daniele si è avvicinato di più, siamo a poco più di un miglio dall’imboccatura. Ora di arrivo ancora 17.05. Ma, mi rendo conto improvvisamente, sono le 15.50… Un miglio in 1 ora? Ma no: viaggiamo a oltre 5 nodi, qui c’è scritto chiaramente che tra 8 minuti saremo arrivati al waypoint… come è possibile?


Per farla breve, avevo lasciato il GPS settato sul fuso orario greco. Quante risate, a questo proposito, tremanti dal freddo nel buio gelido della banchina, aspettando che Manu, fuso orario di Roma, venisse a prenderci...

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