Dall’Asinara
a Mahon ci sono quattro giorni di navigazione, in estate. Specifico la
stagione perché da questa dipende l’assenza di venti costanti lontano
dalle terre emerse.
Partendo
la mattina da isola Rossa - una delle tante del Mediterraneo - è con il
sole al tramonto che salutiamo definitivamente la Sardegna, lontano
nella scia.
Nel
pomeriggio una brezza leggera ci ha accompagnati attraverso il golfo, e
mi ha permesso di salire a riva, imbragato a due drizze di rispetto,
per sistemare l’amantiglio dello spi nella sua puleggia appena sopra le
crocette. Che vista meravigliosa sul ponte, sul mare rilucente, appena
increspato, sulle lontane coste rocciose dell’isola!
Al
tramonto il prodigio: un tonno di discreta stazza s’immola alla “drag
queen”, come ormai è soprannominata l’esca sintetica a forma di polpo
vestito a festa che Francesco e Serena tolgono e mettono da ore alla
canna fissata a poppa in funzione della nostra velocità. Abbocca,
richiama l’attenzione, lotta ma non troppo: mentre Francesco concentrato
lo porta sotto la murata, io cerco di rallentare - ma non troppo - la
barca, Manu si occupa della documentazione fotografica e Serena si arma
di raffio e retino. Alla fine sta a me arpionarlo: fallisco miseramente,
agganciando il povero pesce all’addome, ma lui non si ribella e si fa
issare, con una certa apprensione da parte nostra, a bordo. Qui viene
ucciso a coltellate, sbuzzato, legato per la coda e trainato a
dissanguarsi per un tempo comunque inadeguato, dato che alla fine della
macellazione tutta la poppa della Duna gronda di sangue e pezzi di
interiora.
Francesco
è stanco, impregnato dall’odore - e non solo - del tonno, Serena si
occupa della cena, Manu cerca di raschiare via il sangue dalla poppa, io
penso alle vele e alla rotta, anche se non c’è poi tanto da fare: Mahon
è laggiù, a Ovest, ben oltre l’orizzonte, basta continuare ad andare
avanti, ed avanti, e ancora avanti, fino a che bassa sull’orizzonte
occidentale non si possa cominciare a distinguere, scura, la penisola
fortificata che difende l’entrata al suo porto naturale.
La
sera è splendida. Milioni di stelle prendono il posto del rosso
tramonto. In pozzetto noi quattro sediamo attorno al tavolo per il
nostro primo aperitivo, seguito da una cena a base di tonno fresco, la
prima di tante altre. Mangiamo, beviamo, ridiamo. Non posso fare a meno
di recitare tra me e me i primi versi di “Guido, io vorrei”. I primi,
perché non la ricordo tutta. Ma anche se la ricordassi non avrei
l’occasione di soffermarmi troppo perché la compagnia è piacevole, la
notte è mite, il vento gentile e il vino scende dolce a intiepidire le
membra.
La
mattina seguente è “bafagna”, termine livornese che ci diventerà così
familiare durante la traversata. Il mare è immobile, immenso, vuoto.
Resterà così per due giorni e una notte. Il tempo è sospeso, potremmo
essere ovunque, e in qualsiasi momento una fregata, una galea o una
triremi potrebbe comparire all’orizzonte a reclamare la sua parte di
bottino. Non abbiamo abbastanza carburante per arrivare a Minorca a
motore, e così ce la prendiamo comoda. Giochiamo con i deboli sbuffi
d’aria che increspano effimeri lo specchio azzurro che ci circonda,
guadagniamo miglio dopo miglio verso ovest. Ci tuffiamo esattamente al
centro del Mediterraneo, quasi 3000 metri di acqua sotto di noi. Poche
ore dopo, la pinna di uno squalo ci ammonisce, di lontano, a non farlo
mai più.
Di
nuovo notte, un po’ di motore e l’elica che scava una scia
fosforescente nel buio, poi lo spegniamo per la cena - è estate, siamo
soli nel mondo e tutto ci è amico. Non è il caso di fare i turni come
ieri: resteremo alla deriva con le vele immobili per assenza anche del
minimo rollio e basta uno solo di guardia. Assai più tardi, nel grigio
del mattino, catturo una bava di vento e la inseguo cocciuto, il log che
indica poco meno di un nodo come velocità massima. Nell’euforia del
momento dimentico di chiedere il cambio.
Di
nuovo sole cocente, liscia seta azzurra con sparse chiazze appena più
scure. Grossi funghi marroni galleggiano qua e là, ma al nostro arrivo
con un lento agitarsi tirano fuori una testa quattro zampe, e si
immergono senza nemmeno darci il tempo di una foto. La natura è
insensibile, a volte.
La
terza notte, aggiornato il punto nave e ricalcolata la rotta,
stabilisco che possiamo permetterci il motore. Ma non c’è bisogno:
arriva il mio turno e Francesco mi sveglia: prima del cambio andiamo
insieme a prua ad ammainare il genoa per issare il fiocco. Poi restiamo
io e Serena in pozzetto, con giubbotto e cintura di sicurezza
agganciata: tra un’ora e mezza Manuela le darà il cambio. Il vento
aumenta, navighiamo sempre più sbandati. Smagriamo la randa per quanto
possibile, ma la barca continua ad essere troppo orziera. Vado
all’albero, prendo la prima mano di terzaroli, e immediatamente la Duna
si rilassa, e con un respiro potente ci trasporta di bolina larga
attraverso la notte a oltre sei nodi. Amo questa barca, le sue vele
consumate, le sue sartie lucide, la sua vernice screpolata. La amo con i
suoi difetti, con la sua età. Con il suo carattere. E lei si fa carico
del peso dei suoi anni e dei nostri corpi, e ci traghetta nel buio tra
gli spruzzi di schiuma, stoica e infaticabile. Mi farà scontare tutto
questo durante i lunghi pomeriggi di manutenzione invernale, lo so. Ma
va bene così.
Sta
finendo il mio turno quando vediamo le prime luci del faro. Conto i
lampi, lo riconosco: è il più orientale della costa est, sulla punta
della penisola della Mola, appena sopra l’entrata di Mahon. Certo, è
parecchio più a nord della nostra rotta. E quell’altra luce leggermente
al mascone di sinistra, sopravvento, più debole oltre l’orizzonte,
cos’è? Mi attardo un po’ a discuterne con Francesco, dopo averlo
svegliato per il cambio. Poi mi stendo vestito nella cabina di poppa,
per essere pronto al grido “LAND HO!”: non voglio perdermi l’atterraggio
per niente al mondo. Ma è solo diverse ore dopo che la costa diviene
ben visibile, investita in pieno dal sole nascente, rivelando che il
faro da noi avvistato a Nord Ovest non era quello prossimo a Mahon
(evidentemente spento) ma quello di Favaritx, che ha caratteristiche identiche! Un’altra lezione da imparare: mai accontentarsi del faro più vicino (o anche: fai meno il figo e accendi il GPS.)
È
ormai giorno, il vento tiene, viriamo per evitare un traghetto,
riprendo il timone mentre cerchiamo di individuare l’entrata del fiordo
grazie alle mede. Quando
atterri dopo una navigazione in alto mare, lunga o breve che sia,
sempre da lontano appare tutto troppo stretto, sembra che non ci sia
abbastanza spazio per passare in sicurezza. Poi ti avvicini a terra e le
dimensioni si dilatano lasciandoti acqua per qualsiasi manovra, e dubbi
sulle tue capacità di valutazione. Mahon fa eccezione: la prima
impressione è quella giusta. Passata l’ultima boa verde, ammainato il
fiocco, accostiamo a destra e entriamo con la sola randa nel budello che
porta a Cala Teulera, scivolando tra le due fortificazioni della Mola a
dritta, del Lazzaretto a sinistra, studiando muti le scogliere sfilare a
poche braccia dalle murate. E poi, dopo quattro giorni di viaggio, nel
silenzio del primo mattino, metto la prua al vento e, sul finire
dell’abbrivio, faccio segno a Francesco di dare fondo. La barca
indietreggia, il calumo si tende, l’ancora fa testa. Ammainiamo e
imbrogliamo la randa e ci guardiamo timidamente intorno. Cala Teulera,
ampia, protetta, accogliente.
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