Veleggiare di notte in un mare buio. Il cielo di ghisa, bucato da milioni di stelle. Orione chino sul suo arco mira con cura l'occhio del toro, corrugando lo sguardo accecato dal bagliore delle Pleiadi. Mi perdo nei colori delle stelle, mentre il mare respira potente. Il suo abbraccio instancabile stringe lo scafo spingendolo sulla sua rotta.
Eterno e immutabile, il mare, il cielo, questa notte stellata. Siamo persi in un nero senza tempo su un guscio di plastica e metallo. Il Mare non sa che siamo qui, che incidiamo per pochi attimi la sua pelle, senza lasciare traccia del nostro passaggio.
E queste onde che montano in silenzio da occidente sono cieche e sorde alla nostra presenza: un attimo di esitazione, una cresta che frange un po' prima di quanto era scritto, e via. Il fronte squassa la barca e si allontana oltre la prua, scomparendo nel buio. Senza rumore.
E noi senza rumore, attenti a non disturbare il sonno degli Dei, navighiamo verso l'aurora, aspettiamo pazienti che il nero lasci spazio al blu e all'indaco e al rosa e, infine, al nuovo giorno. E Orione? È chino sul suo arco, la spada sfavillante alla cintura, il berretto frigio scostato di lato.
Anche lui attende, paziente, che il toro scarti di lato ed esponga il fianco alla sua freccia.
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