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come complicarsi la vita in poche, semplici mosse


Il maestrale soffia gagliardo aggirando Nisos Oxia, sicché io, che devo lasciarmela a dritta per raggiungere Limin Petalà, ce l'ho dritto in faccia da quando monta, esattamente a metà giornata, a quando dopo una infinità di bordi funestati da onda corta e ripida riesco a scapolare le secche dell'Akheloos e a puntare di bolina larga appena sopravvento all'imboccatura della baia. E pensare che doveva essere una giornatina tranquilla, un assaggino, un incipit morbido, del viaggio di ritorno ormai improcrastinabile. 

Stamattina ho lasciato la laguna di Messolonghi e gli amici scortati fin lì - un po' fuori strada in effetti - per via della pompa del raffreddamento in fin di vita. Hanno il mio stesso motore (anche la stessa barca, se è per questo), e vivo ogni loro problema come un anticipo di quello che mi capiterà, prima o poi. 
Stamattina, quindi, ho acceso il motore, salutato tutti, Messolonghi pare sia uno di quei posti dove in pochi giorni ti senti a casa, e manovrato per uscire evitando cime di ormeggio e corpi morti: la mano destra sulla ruota del timone, la sinistra a lanciare baci in banchina dietro di me. Vista da fuori deve essere sembrata una scena strappalacrime. Uscito dai moli, passato il francese che pensavo fosse morto - son tre giorni che riesce a sparire proprio quando la capitaneria passa a cacciare le barche all'àncora, e invece stamattina si muove arzillo per il ponte di coperta - la laguna è uno specchio fatato in cui si riflettono barche, palafitte, mede e aironi. 

Ma adesso, ore e miglia dopo, il maestrale soffia gagliardo e alza un'onda corta e ripida che schiuma via spazzata dal vento lungo la falchetta. Duna è coricata sull'acqua. Stringo più che posso, randa piena e fiocco medio (e meno male che non ho ingarrocciato il genoa sennò c'era da ridere) ma non riesco a imboccare, con il margine che in questi casi pretendo, il canale tra l'isola di Makronisi sulla sinistra e i banchi di sabbia sulla dritta. Altro bordo: preparo le scotte, schiaccio due bottoni sull'autopilota (ho lasciato il timone ad Arthur), e passo il fiocco sulle nuove mura. Sarà la ventesima volta da stamattina. Scatto foto, ripesco la pianta di basilico che tenta di rotolare fuoribordo, ascolto gli interni della barca fare ammuina: tutto quello, di libero o liberabile, prima sistemato sul lato di dritta, trova un nuovo equilibrio sul lato di sinistra, tenendosi pronto a scattare una nuova posizione al prossimo bordo. Dietro, una scia spumeggiante, in cui affonda tesa la lenza, a mollo dal primo pomeriggio.
Ancora una virata, e finalmente posso puntare diretto all'imboccatura di Petalà. Una bolina larga addirittura, col vento che ridonda facendo accelerare sempre di più la barca. Il log comincia a tirar fuori cifre viste di rado: 6 nodi, 6 e mezzo, 7... a 7.5 Arthur, chiamato in causa di tanto in tanto, comincia a dare cenni di cedimento nonostante abbia abbondantemente scarrellato la randa. Il timone s'è fatto duro, è il momento di prendere i terzaroli. Lascio di nuovo il comando al mio secondo, dopo essermi raccomandato ("non mi fare scherzi, che vado all'albero"), lasco la randa fino a sventarla, e tiro giù la prima mano. Pochi minuti, e la Duna balza di nuovo in avanti, decisamente più gestibile di prima. Però, dico io, magari se prendo una mano anche al fiocco sono ancora più sicuro. Ma no, non serve. O sì? In realtà non mi va, è una rottura si scatole, ma proprio per questo, alla fine, mi costringo ad agire. Tanto - mi giustifico - se queste manovre non le provo quando ancora la situazione è tranquilla, quando mai potrò sentirmi sicuro in emergenza?

Ci ragiono su: visto che deve essere un allenamento voglio studiarmi ogni singola mossa. Il fiocco deve essere accessibile, non troppo in tiro, e io devo potermi muovere in coperta senza finire in acqua. Potrei mettermi di bolina stretta: il passaggio delle scotte alla nuova bugna sarebbe facile, e poi potrei lascarlo un po' per poterlo calare quanto basta a fissare la nuova mura. Certo però che con la falchetta in acqua e l'onda al mascone, uscire dal pozzetto non è così allettante. Potrei mettermi di poppa e sventare il fiocco. Me lo porterei vicino alle sartie, e ci lavorerei in tranquillità e sicurezza. Ma Arthur ce la farebbe a tenere la rotta con queste onde e la sola randa? E poi, quanta acqua ho sotto vento? Ho impiegato un pomeriggio a risalire fin qui, e mi dovrei giocare tutta la strada guadagnata per provare a prendere una mano di terzaroli che forse neanche serve? Arrivo infine alla soluzione più elegante: prendo la cappa, randa cazzata a ferro e fiocco a collo, e lavoro così. La bugna è accessibile al centro barca, la Duna è abbastanza stabile, non dovrei scarrocciare più di tanto anche se dovessi metterci più del previsto. Mi aggancio la cintura ed esco dal pozzetto. Fisso una ritenuta sulla bugna alta, quella della mano di terzaroli, lasco la scotta sopravvento e passo lei e l'altra sulla nuova. Lasco la drizza di un metro, fisso la mura, cazzo di nuovo. Sono pronto. 
Soddisfatto, prendo in mano il timone, lo libero tirando via il nodo con cui l'avevo rizzato alla colonnina - la frizione da tempo è passata a miglior vita - e porto Duna ad abbattere per tornare sulle mure che mi permettono di raggiungere con un solo bordo l'ormai agognato - e guadagnato direi - ancoraggio notturno. Timone alla puggia, quindi. Il fiocco si gonfia sulla dritta, accompagno il boma per far passare la randa e sono in rotta. Tic tic tic tic... Mi giro verso poppa e realizzo che la lenza è ancora a mollo, e che sta interagendo con le pale dell'eolico in un rapporto contronatura. Non faccio nemmeno in tempo a bestemmiare che già l'arnese si blocca, intasato da decine di metri di filo di nylon.
Completo comunque la frase come un mantra e, dopo diversi secondi di trance - in cui mi rendo conto, da lontano, attraverso una sorta di nebbiolina intrisa di acido lattico, che comincio ad essere parecchio stanco e questo non è bene - prendo di nuovo la cappa per liberare la lenza. Mi lego e salgo fino alle pale. Lo so non si dovrebbe fare. Mi raccontava tale Tiziano, la scorsa settimana, di quando ha disalberato col suo mini a 30 miglia dalle Canarie, e di come fosse talmente cotto che sarebbe sceso in acqua per tagliare le drizze (l'albero sbatteva sullo scafo e andava liberato) se solo non avesse trovato da lui stesso appuntato, nelle note di emergenza, che quella cosa NON andava mai fatta. Io non ho note d'emergenza, e così con 20 nodi di maestrale, alla cappa, legato, mi sono adoperato per 10 minuto in piedi sui tubi in acciaio del giardinetto per cercare di liberare le pale dell'eolico. Impresa impossibile, soprattutto perché, me ne accorgo mentre con una mano mi abbraccio al palo di alluminio, con l'altra cerco di tirare via il nylon (che per tutta risposta cerca di tirarmi via la prima falange dell'indice), l'altra estremità non è libera. La seguo con lo sguardo attraverso gli occhiali chiazzati di sale: finisce tesa verso prua. Scendo, mi sgancio da poppa e mi lego alla life line, schivo scotte cime ritenute tender sartie e arrivo all'àncora. La lenza si è incattivata, o forse in questo caso è più corretto scrivere incattivita, perché come c'è finita proprio sull'unico millimetro di testa di vite un pelino sporgente di tutta la fiancata non si capisce, sulla placca inox che protegge il bottazzo dallo sfregamento delle cime di ormeggio. La libero, la guardo calare a fondo soddisfatto. Torno a poppa, salgo di nuovo all'eolico. Tiro. Niente da fare. Scendo, seguo il filo con lo sguardo, e mi rendo conto che è teso verso il basso all'altezza del timone. Invoco gli dèi a modo mio, più per abitudine che per convinzione visto che questa è tutta e solo colpa mia, e mi siedo in pozzetto a ragionare. Potrebbe essere la pala del timone, ma anche la deriva, o addirittura l'elica. Di tagliare non se ne parla. Fortuna, penso tra me e me, che oggi ho tenuto la retro ingranata per non far girare l'asse... ma appeno accendo il motore combino una mappazza. Immagino che alla fine, tra eolico timone elica e mulinello, perderebbe la lenza, ma non ho molta voglia di scoprirlo né, soprattutto, di sistemare poi il casino. "Ormai la frittata è fatta, quantomeno conteniamo i danni", è la frase che rivolgo ad Arthur nel riprendere il timone e puggiare fino a rimettermi in rotta verso Petalà. Lui non risponde, ma spero sia d'accordo con me perché ho ancora bisogno del suo aiuto. Dopo un paio di miglia volate al traverso - io, la Duna e un centinaio di metri di lenza con un pescetto in fondo che ci manca solo che arriva un tonno e se lo mangia e poi che gli dico: scusa, puoi girare da questa parte così libero il timone? - tiro giù il fiocco simulando una virata per sventarlo quel tanto che basta a scaricare la drizza. In realtà la simulo talmente bene che un'onda mi fa passare la prua dall'altra parte e devo completare la manovra con la vela di nuovo a collo, uscendo dal pozzetto ed evitando scotte, cime, cimette, sartie e tender. Rizzo il fiocco alle draglie e rimango con la sola randa. La mossa era ben calcolata, perché prima di ammainare avevo risalito il vento fino ad avere l'entrata della baia al lasco, ma ora ho dei dubbi. La manovra è durata troppo? Ho perso acqua? Quella fish farm sottovento non è un po' troppo vicina? E le onde che improvvisamente prendono a frangere, non saranno indizio di una secca nelle vicinanze? E uno di quei momenti in cui vorresti avere uno al carteggio che ti dice "alla via per 070, la rotta è libera da pericoli", un altro in testa d'albero pronto ad avvistare ogni cambiamento nella sfumatura di colore delle onde, e magari anche un tipo con uno scandaglio a mano che ti dà la profondità ogni 20 secondi. Perché il mio ecoscandaglio ultimamente è in crisi esistenziale, sta cercando se stesso forse e, certo per aiutarmi, proprio adesso, con le onde che mi sbattono al traverso, decide di segnalarmi 9 metri dove invece dovrebbero, me lo ricordo ma ricontrollo, ecco, sulla carta, essercene ancora 30 e passa. È una profondità farlocca, ne sono sicuro, ma quando prende a diminuire non posso fare a meno di stringere il vento - e non solo - per cercare di entrare più a nord. Non troppo, però, ché ormai senza fiocco e con questo mare non posso sperare di risalire di bolina. Certo le onde che frangono proprio qui, l'ecoscandaglio che segna ora 5 metri, la fish farm sulla dritta, sottovento. Quanto sarà lontana la costa? Ma niente, l'inutile oggetto si stabilizza su 2.1 e io, che ne pesco 1.9, nonostante le onde, riesco a sbatacchiarmi fin dentro la baia senza danni. L'onda finalmente cala, l'ecoscandaglio sorride malizioso e segna di nuovo 9 metri, ma questa volta sono quelli veri, e io mi concentro nel nuovo compito: ancorare a vela in quello che Heikell chiama "a solitary anchorage", definizione che, evidentemente, ha fatto molta presa su tutti quelli che stasera lo affollano.
Ora dovrei nei miei programmi star scivolando tranquillo col vento al traverso, se non fosse che appena dietro il ridosso il maestrale è calato, per poi scendere giù in raffiche da direzioni sempre diverse. Adocchio uno spazio libero tra due barche e lo punto di bolina, bordeggiando. Gli occupanti della prima barca sono charteristi. Mi guardano più divertiti che preoccupati quando li punto per poi virare a trenta metri dalla loro murata. Li saluto, rispondono esitanti. Quelli della seconda sono una coppia di pensionati olandesi. Siedono in pozzetto con maglietta d'ordinanza arancione. Come vede che lo punto (che poi, "lo punto": la bolina è la bolina, mica me la sono inventata io) lui si alza in piedi e si sporge dalle draglie. Penso "ora mi chiede se è tutto a posto e mi offre il suo aiuto", ma forse Messolonghi e gli amici e i compagni di vela e d'avventura fin qui incontrati mi hanno annebbiato il senso della realtà. Ci pensa l'Olandese a riportarmi i piedi per terra: appena un attimo prima della mia virata, l'idiota mi grida: "Why are you sailing? You can'sail here!". Me lo guardo. Calzoncini, panza prominente, capello a spazzola e maglietta arancione. E, da una barca a vela, viene a dirmi che, con la mia barca a vela, non devo andare a vela. In una baia larga due miglia, sperduta nel nulla: un "solitary anchorage". Su che basi ragionare con un tipo del genere e, soprattutto, perché provarci? Dopo quello che mi son fatto capitare ho le palle che mi girano come gli anelli attorno a Saturno, e solo perché ho cose più importanti a cui pensare, tipo arrivare a vela nel punto prescelto, dare àncora farle fare testa senza usare il motore e liberarmi dai cento metri di lenza di cui sono avvolto, mi trattengo dal turpiloquio che pure avrei ben pronto sulla lingua anche in inglese. Continuo a puntarlo, deciso per la mia rotta, e comincio a domandargli, tirando fuori il borgataro che alberga in ognuno di noi: "Che problema hai?" "What?" "Qual è il tuo problema?" "What?" "Che problema hai?" "I don't understand" e si rimette seduto allargando le braccia. "Appunto" concludo, e vado all'orza per cambiare mura. Cinque minuti dopo Duna strattona la catena sotto raffica, senza riuscire a liberarsi, e io sono in acqua con mutino, maschera e coltello. Il filo di nylon ha catturato in strette volute sia il timone che l'elica. Libero, taglio, libero ancora. Inspiegabilmente - almeno per me - c'è forte corrente, e l'acqua è verde e melmosa tanto che faccio fatica a vedere la pinna appena pochi metri più avanti. Un ultimo taglio, un nodo, e risalgo sulla plancetta a recuperare l'artificiale a cui, fortunatamente, non c'è attaccato nessuno, pesce uccello o umano che sia. 
Nel frattempo, nonostante la distanza o forse proprio approfittando di questa, frequentemente mi rivolgo verso la barca olandese e insulto il finto velista che la infesta. Le parole non arrivano a segno, ma lo sguardo credo sia eloquente. Nel mio odio, perché io gli stupidi li odio, arrivo ad auguragli di avere bisogno di aiuto, e di sentirselo rifiutare. Mi immagino lui e la moglie fermi in mezzo a un mare senza vento, il motore in panne e la corrente che lenta ma inesorabile li porta verso il Padre di Tutti gli Scogli, e io che passo lì accanto con una cima in mano e gli dico, all'idiota: "Do you remember me? Have you ever helped anyone, you stupid credit card sea-asshole?" e tiro dritto, lanciando, senza nemmeno più guardarli, la cicca nella loro direzione. E io non fumo. 

Ancora nervoso, con l'adrenalina che tiene su alla meno peggio quel che rimane di me, dedico le mie attenzioni alla barca. Sistemo scotte, cime, rinvii. Il tender che s'è messo per storto - ha cercato di scappare anche lui, come il basilico - il fiocco che, ammainato a collo, ancora serpeggia lungo il ponte. Torno verso il pozzetto e colgo con la coda dell'occhio un movimento. È la moglie dell'idiota, che attraversa faticosamente a remi la distanza che ci separa. La guardo, mi guarda, non dice nulla e continua a remare. Starà venendo proprio qui? Ha bisogno di aiuto (ma io tronfio non glielo darò)? Niente di tutto questo. Accosta, si tiene debolmente con una mano al bottazzo. Ci salutiamo educati, perché io sotto sotto sono una personcina a modo e in ogni caso le arrabbiature mi passano in fretta - preferisco aspettare la morte del mio nemico facendo altro - e con gentilezza mi chiede se ho danni alla barca, se ho bisogno di aiuto. "No, I was so stupid to take my own fishing line in the wind generator, in the rudder and in the propeller, but now I've fixed it, thank you". E lì, con un sorriso timido, ecco che la pensionata olandese mi porge un contenitore in plastica "It's hot. You can put it in a pan and give me back my box". Mi ha portato la cena! 
In queste occasioni rimpiango amaramente di non conoscere abbastanza locuzioni inglesi per ringraziare propriamente una persona. Farfuglio qualcosa e scendo sottocoperta a svuotare il contenitore. Mi viene in mente di contraccambiare con una bottiglia di vino, ma dovrei cercarla, e lei poverina è aggrappata come un batrace alla murata a spigolo della Duna, col vento e la corrente che cercano di spingerla via verso il fondo melmoso della baia. Mi riprometto di fare qualcosa domattina, torno su, altri ringraziamenti, le stesse parole di prima, il mio vocabolario è scarno sull'argomento, ci salutiamo, la vedo remare tra i flutti e approdare sana e salva dal marito. 

Il quale, nonostante la moglie mi abbia decisamente commosso attraversando il vasto mare con un piatto di pennette al sugo Barilla nemmeno troppo scotte, rimane sostanzialmente un idiota: quasi più di me.


Commenti

  1. Carlo, quando torni, accendi un bel cero in chiesa, ok? ::)) comunque... well done!
    Pietro

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  2. Petala Bay......dove andò a rifugiarsi il rinnegato calabro Ucciallì fuggiasco dal teatro della battaglia di Lepanto, inseguito invano dal Doria (che non è che si impegnò poi tanto, eh ?).
    E da dove poi andò a Tripoli, e da qui imperversava nel Mediterraneo, alla ricerca di navi cristiane da depredare !
    Petala mi manca, spero di colmare la lacuna il prossimo anno.
    Comunque di nuovo un bel racconto, non ti smentisci !

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  3. Carlo, quando torni andiamo entrambi a Lourdes. Non ci credo, ma male non fa ;-)

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  4. Non so se mi è piaciuto più "il rapporto contronatura tra filo e generatore eolico" o l"improperio "stupid credit card sea-asshole" Scherzi a parte bel racconto pieno d'ironia...e meno male che tutto sia andato bene

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